venerdì 6 marzo 2009

Senza titolo - 15



(Qui le puntate precedenti)

Dal basso, con gli occhi vitrei e inespressivi, la faccia rigida, i baffi paradossalmente perfetti e i vestiti firmati ma imbrattati, mi fissava il più classico esempio di giornalista zerbino delle nostre parti: uno che aveva le mani solo per fare da reggi microfono del potentino di turno e la bocca come fondina per una delle lingue slappa-deretani più formidabili del mondo libero.

Adorava esercitare la sua sopraffina arte linguistica soprattutto nei confronti di quel mezzo scimunito che faceva il sindaco. Oh, a me dei giornalisti non me ne sbatteva un cazzo. A volte mi sembrava soltanto gente che non aveva trovato di meglio da fare nella vita e sapeva scrivere solo in stile pensierino-scemo-delle-elementari: cose idiote scritte per lettori rincretiniti. Ma dovevano sopravvivere e potevo capire una certa benevolenza nei confronti di chi comanda. Quel bastardo però l’avrei impalato vivo e lasciato in pasto alle cornacchie, se solo avessi potuto. Penso che tutti quelli che erano stati a scuola nei miei anni la pensassero allo stesso modo. Ma lo stronzo non era più un problema, a meno che non gli si capitasse a portata di mascella.



In una serie di servizi per quello schifoso telegiornale che dirigeva, lo stronzo ci aveva riservato un bel maltrattamento televisivo per una settimana filata: avevamo iniziato lo sciopero a scuola per un fracco di buoni motivi. Primo, non funzionava il riscaldamento e ci gelavamo le chiappe in quell’edificio che sarebbe stato inospitale pure per piazzarci la Batcaverna. Secondo, non c’era giorno che passasse senza che le pareti scricchiolassero un pochino. Nei decenni, da quando cioè avevano intonacato le pareti nel Neolitico inferiore, si era affermata la tradizione di segnare l’allungamento delle crepe nei muri con la data: tutti eravamo convinti che quella fosse l’unico segno che avremmo lasciato ai posteri del nostro passaggio terreno.

Sempre che la scuola non crollasse prima e con noi dentro: eventualità da non escludere a priori, visto l’allungarsi prodigioso di crepe nate (e puntualmente certificate) nei primi anni Settanta.

Se tutto questo non fosse bastato: non avevamo un cortile, non avevamo un campetto, non avevamo una palestra e all’ora di educazione fisica si cazzeggiava nei bagni. Dopo una serie di lamentele del resto del corpo docente, il preside Conch’e Ginogu (era calvo come una palla da biliardo) decise di fare qualcosa per salvare dall’alcolismo i prof di educazione fisica, che ormai erano diventati clienti premium del bar di fronte alla scuola. Così fece allestire una specie di palestra in una classe dismessa: due spalliere svedesi, una corda, due materassini marci e un canestro da mini basket che i meglio informati dicevano provenire dai Giochi della Gioventù del 1954.

Il canestro – mega delusione - era solo per figura: la palestra era al primo piano, sotto altri sfaticati tentavano di fare lezione. Perciò niente palleggi per non disturbare la classe al piano terra, nessun movimento troppo brusco né salti né per non accelerare il cedimento strutturale in corso e sperimentare rovinosi salti di classe attraverso il pavimento. Dal cazzeggio in classe si era passati dunque a quello nella palestra: qualche volenteroso tentò l’approccio con le spalliere svedesi ma un giorno una si staccò dal muro e venne giù come un abete segato in una foresta del Quebec. Capimmo che anche quelle erano per bellezza e decidemmo che ne avevamo le tasche piene di quella scuola.

(15 - continua)

1 commento:

Marta ha detto...

ho riso troppo :D