martedì 30 settembre 2008

Senza titolo (per ora) - 5

(Continua da 1 - 2 - 3 - 4)

Non avevo molte alternative. Qualsiasi cosa avessero in testa gli scimmioni, non credo che contemplasse la fuga. Ma se avessi messo un piede fuori dal mio nascondiglio, quegli altri avrebbero abbandonato il problema del tonno in scatola per lanciarsi sulla bistecca al sangue.

Ma che cavolo, mi dissi. Non sono stato campione scolastico dei 200 metri? Sicuro, dieci anni e molti McDonald’s fa. E correvi contro uno sciancato, uno con le emorroidi, due gemelli napoletani ciccioni (che si erano qualificati minacciando gli altri concorrenti) e uno con le scarpe di cartone che si aprirono a 50 metri dal traguardo e lo fecero capitombolare via. La vittoria morale andò a lui: stava vincendo con 30 metri di vantaggio su di me, che ero tallonato da quello con le emorroidi. I ciccioni erano fuori gara: si erano fermati a picchiare lo sciancato perchè aveva risposto male a una minaccia.

Dovevo cercare di andarmene prima che ai gorilla saltasse in testa di proporre la loro versione del bombardamento di Apocalypse now. Mi infilai lo zaino, afferrai la mia clava da cavernicolo e con un calcio buttai giù la porta dell’ufficio dove mi ero rifugiato. Lanciai uno dei moncherini che mi erano piovuti addosso verso il gruppo di zombi. Il pezzo rimbalzò su una testa e tutti si immobilizzarono.
Dopo un attimo si voltarono verso di me. Tutti insieme, perfettamente sincronizzati. Mi sentii un po’ meno spavaldo. E mi resi conto che «correre, correre, correre» non era una strategia. Era una coglionata.

Come quelli mossero il primo passo verso di me, io feci una finta ubriacante di quelle che mi avevano reso “famoso” sui campi di basket – e gli zombi non abboccarono, esattamente come tutti i difensori delle squadre avversarie dell’epoca – e mi lanciai alla mia sinistra, lungo la parete dell’ufficio-bar-ristorante del distributore. La speranza era quella di trovare un modo per filarmela: una bicicletta, un motorino. Magari con le chiavi infilate dentro. Sennò un unicorno alato. Ci voleva un miracolo perché ad ogni passo che facevo mi rendevo conto della cazzata galattica che stavo combinando.

Me li sentivo dietro, quei loro occhi gelidi puntati sul collo. Non erano ovviamente in grado di raggiungermi, con quelle gambe rigide e il passo sbilenco. Ma l’avevo già visto altre volte, quella notte: loro non si stancavano e noi invece non potevamo correre per sempre. Ti fermavi a riprendere fiato e scoprivi che, efficaci come segugi, ce li avevi ancora dietro. E prima o poi cadevi o davvero non ce la facevi più e cominciava “Il pranzo è servito” ma senza Corrado o quella odiosa musichetta.

Con la coda dell’occhio vidi il disco volante prendere lentamente quota. Io girai l’angolo dell’edificio e corsi subito nel retro. Quasi inciampai in una scala di metallo posata per terra e senza pensarci su la acchiappai e la issai per salire sul basso tetto dell’ufficio. Forse era il mio miracolo. Mi arrampicai appena in tempo, perchè i morti sbucarono da due direzioni in contemporanea. I figli di puttana avevano tentato di accerchiarmi: un gruppetto aveva fatto il giro per chiudermi la strada.

Tentai di tirare su la scala, ma era pesante e quelli la afferrarono. Mollai tutto e gliela feci cadere addosso. Immaginai una telecamera nascosta e Piero Angela che sussurrava: «Ecco, ora vedremo il grado di manualità dei non morti. Posti davanti al problema della scala da raddrizzare, questi nostri parenti molto prossimi mostrano evidenti difficoltà». O così speravo io mentre gettavo uno sguardo a quel gruppo di disperati. Erano incasinati persi, grazie al cielo: un paio tenevano le due estremità dell’attrezzo ma gli altri fessi continuavano a infilarsi tra i pioli. Sembravano confusi, mi davano l’idea di qualcuno che si ritrova davanti a qualcosa che conosce ma non ricorda bene come si usa.

Non vi è andata bene oggi fratelli, tra scatolette di tonno e incredibili oggetti misteriosi. Tanto meglio, pensai, avevo qualche istante prezioso. Da usare non si sa come, visto che ero praticamente in trappola. Il rombo del motore del bus invece mi salutò.

(5 - continua)
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venerdì 26 settembre 2008

Spezzatele le falangi, toglietele la tastiera, impeditele di scrivere


Ormai è una questione di principio. Lei continua a scrivere questi aborti per l'Unione Sarda (oggi, pagina spettacoli) e io continuo a mostrare all'universo mondo quanto sia negata per il mestiere che fa. Vuole essere stilosa e moderna e non ne è capace. Essere stilosi non significa scrivere tre parole e andare a capo. Scrivere altre tre parole e andare di nuovo a capo. Se si prendesse la briga di leggere qualche libro di gente che sa davvero scrivere in modo effervescente, capirebbe che lei e la scrittura sono mondi estranei, che mai si incontreranno. Un po' come la poesia di Shakespeare, che la nostra "giornalista" scomoda in chiusura, e la poesia di Cesare Cremonini: pianeti distanti anni luce, che in comune hanno solo le lettere dell'alfabeto. Certe cose, a volte, gridano davvero vendetta agli occhi degli dei. Ma almeno è confinata in un giornale di provincia buono solo per involgere il pesce, e i suoi pezzi se li leggerà da sola o in compagnia di qualche amica quindicenne che le dice: "Ceeeee, sai scrivere solo troppo bene".
Luci, camera, azione...

Ma se ti piace nascere al tramonto... puoi dormire insieme a me
(Le 6 e 26).
Va bene.
È scritto così.
E scritto nella canzone - puoi dormire insieme a me e tutte quelle cose lì. Però in questo pomeriggio che a Milano non è estate non è inverno Cesare Cremonini ti viene incontro con il sorriso stanco di chi non ne può più.

Undicesimo piano di mattonvetro e acciaio di piazza della Repubblica, palazzone Warner. Giornata di interviste. Passano i quotidiani, passano le riviste, passano le radio e i web e tutti quei giornalisti che l'hanno capito loro, com'è che va.
E Cremonini non ne può più perché:
a) i Lunapop;
b) il sesso;
c) i Lunapop e il sesso.
Tutte uguali, queste domande.
Eppure dai Lunapop sono passati dieci anni.
Eppure il sesso saranno fatti suoi.
E invece no.
Cesare, Cesare - che quando è andato a vivere da solo ha preso il trapano per attaccare al muro una chitarra e tanto ha bucato che ha perforato un tubo dell'acqua e ha allagato il salotto.
Cesare, Cesare - che a cinque anni cantava Cristina D'Avena epperò è diventano grande con i Beatles e i Queen e i Beach Boys. «Pure con Battisti. E Battisti è il meglio».
Ecco, questo Cesare te lo raccontano solo come un poeta ubriaco di vino e di donne.

L'amore è là dove sei pronto a soffrire, lasciando ogni cosa al suo posto e partire (Figlio di un re)
Cesare Cremonini era il ragazzino della Vespetta, quello dei Lùnapop, quello di diari tardoadolescenziali e di una Bologna che sapeva tanto di Brizzi scrittore bambino. Poi è successo che dal gruppo è uscito lui, e pareva un Jack Frusciante solo più bello, con quegli occhi scuri scuri e le mani in tasca - ma così forte, ma così rock.
Ha cantato altre canzoni.
Ha scoperto altri mondi.
È diventato grande.
È diventato bravo.

Metterà lo zucchero al posto del salato, per dimostrare al pubblico che nella vita è vero il vero ma pure il suo contrario, e niente senza il pianto sarebbe straordinario (La ricetta...per curare un uomo solo)
Oggi esce il disco nuovo. E un disco molto bello e molto difficile. Cesare Cremonini ha ventotto anni.


Ho cercato l'amore negli occhi di tutte le donne, baciando le labbra di chi non ne dà. Ho dormito per terre straniere coperto di foglie cercando l'altra metà
(L'altra metà)
Sono piccole storie, queste di Primo bacio sulla luna , e Cesare Cremonini chiede di ascoltarle. Fermatevi e ascoltatele, dice - e dice anche che la discografia, oggi, va veloce, ma così veloce che vuole canzoni da buttare lì su un'estate che ci pensi e già è finita. Fermatevi e ascoltatele, spegnete la televisione, restate soli: la solitudine non è un male da fuggire: è un bene da capire. Perché qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure, e gli arrangiamenti vaporosi e le rime aeree e le risalite leggerissime. Rimane un disco che vuole far sognare, «lo sai, la fantasia è la vera libertà, oggi».

Nudi accarezzandoci sempre, nudi accarezzandoci un po', graffi e morsi sulla pelle, chiusi in un miracolo (Chiusi in un miracolo)
«C'era un filosofo, che si chiamava come me, Cesare Cremonini. Era quello che accusava Galileo e diceva questo è pazzo». Sorride. «Ecco, io sto dalla parte di Galileo».

Nel cuore mio l'abisso, intorno a me l'eternità (Il primo bacio sulla luna)
«Io ho fiducia in chi ha voglia di fermarsi ad ascoltare: questo disco è un abbraccio e una carezza» - è credere, a dispetto di come gira questo Paese, che ha ventotto anni puoi fare, e non soltanto aspettare. A Bologna, nella sua Bologna, Cesare Cremonini ha fatto uno studio nuovo, una factory, che detto così rende meglio, perché Mille Galassie è un mondo piccolo dove studiare, suonare, scrivere, cantare, pensare. Dormire? Sognare, forse. Continua a leggere

giovedì 25 settembre 2008

Tremate tremate, le cazzate son tornate


Ieri sera è tornato Voyager su Rai due. Quando mi capita - e DAVVERO non ho di meglio da fare - mi siedo a ridere delle panzane galattiche che Roberto Giacobbo cerca di venderci come se fossero verità assolute.

L'apice di ieri: Giacobbo, con faccia serissima, ricordando l'apocrifa frase di Einstein sul destino della razza umana nel caso che scompaiano le api, dice: "Per esempio, se le api scomparissero tutte oggi, alla razza umana resterebbero 4 anni: ecco di nuovo il 2012, un numero che noi conosciamo bene". Così, con un calcolo assolutamente arbitrario, usando una frase mai pronunciata, dando per scontate cose che non lo sono per niente, eccoci arrivare ancora una volta al fatidico anno della fine del mondo secondo i Maya.

Ma anche la carrellata di latitudini e longitudini nei millenni antidiluviani per dimostrare che i luoghi di potere sono tutti orientati secondo un criterio, non era male. Se mi doto di un buon programma astronomico, anche io sono capace di dimostrare che il mio divano, nel 12mila avanti Cristo, guardava sorgere la stella Sirio.

Cosa abbiamo imparato ieri? In estrema sintesi: Macchu Picchu è stata costruita in un luogo davvero inaccessibile. Perchè? Boh. Da chi? Boh. Quando? Boh. Nell'area 51 c'è una base militare segreta: quattro fessi americani passano giorni nel deserto per scoprire che: 1) di notte accendono le luci; 2) c'è traffico di aerei (e beh, strano, ci sono tre piste); 3) usano la radio per comunicare. Conclusioni: l'area 51 esiste e ci fanno qualcosa dentro. Altra questione: Mozart è stato assassinato? Da chi? Ipotesi: Salieri (sì, vabbè, due palle); la massoneria incazzata perchè aveva riempito di simboli "Il Flauto Magico"; alcuni massoni incazzati per i debiti di Wolfgang o perchè si trombava la moglie di uno di questi. Infine le scie chimiche. Livello scientifico pari alla mitica frase da diario di scuola: "come l'aereo lascia la scia...". Ah sì, e perchè lascia la scia? Cosa vuole fare quell'aereo? Signori dell'Aeronautica militare, voi per caso spruzzate dal cielo composti chimici per condizionare il tempo e/o farvi una mappa 3d di un terreno (giuro, l'hanno detto)? Risposta: "Chi? Noi?".

Vi rimando - per ulteriori delucidazioni su una trasmissione che, facendo finta di fare cultura, sparge ignoranza e superstizione ad un pubblico che è già abbastanza ignorante e superstizioso di suo - al lucido intervento di Paolo Attivissimo: Il Disinformatico: Voyager e l'Area 51 (con contorno di api e scie chimiche)

Ricordate: ai confini della conoscenza, c'è solo l'ignoranza. Pagata coi soldi pubblici.
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martedì 23 settembre 2008

Senza titolo (per ora) - 4

L’improbabile equilibrio venne spezzato da quello che era il classico parto di uno sceneggiatore hollywoodiano a corto di idee: preceduto da una serie di tonfi sordi, un autobus irruppe sulla scena. Abbatteva i cadaveri che gli si paravano davanti come un ubriaco al volante avrebbe fatto coi cartelli stradali. Non vedevo chi c’era alla guida, ma il mezzo era uno di quei classici pullman arancioni che l’azienda di trasporti pubblici metteva sulle linee più trafficate. Erano così scalcagnati che ogni volta che prendevano una buca nell’asfalto, capivi come si sentivano a Baghdad quando incappavano in una mina. Una volta, durante uno dei frequenti sobbalzi gentilmente offerti dalle groviera che chiamano strade, battei la testa sul tetto del bus tanto forte che mia madre, vedendo il bernoccolo, voleva cacciarmi di casa convinta che mi fossi finalmente rivelato come figlio del diavolo (e l’aveva sempre sospettato).

Comunque perfino un cretino come me, che non avevo la patente, poteva intuire che l’autista del bus fosse poco pratico nella guida di un mezzo così grande. Alla prima sterzata, per evitare il disco volante, per poco non finì a tutta birra sulle pompe di benzina. Alla controsterzata, mancò tanto così che non finisse ruote all’aria e si trasformasse in un succulento piatto di carne in scatola per gli zombi superstiti. I gorilla approfittarono della confusione per rientrare nella navetta e chiudere il portellone di carico. Non sapevo se commuovermi perché, in tutto quel merdaio, io e gli scimmioni spaziali avevamo convenuto che la cosa migliore fosse nascondersi in attesa di tempi migliori.

I morti dimenticarono i gorilla e si incamminarono verso l’autobus che continuava a sgommare nello spiazzo del distributore come un’automobilina sulla pista elettrica. I casi erano due: o al volante c’era un loro amichetto ex autista che faceva appello ai suoi neuroni fritti per ricordare come guidava oppure c’era un cretino a cui era andato in pappa il cervello e aveva deciso di fare Grand Theft Auto dal vivo prima di schiattare. La prospettiva di una comitiva zombesca che si muoveva in autobus mi faceva sorridere. Cosa avrebbero cantato durante il viaggio? Quel mazzolin di fiori / che sta sulla mia tomba?

Ad ogni manovra diventava sempre più chiaro che neanche uno zombi coi riflessi di un cervo impagliato avrebbe potuto guidare così male. Era solo questione di tempo perché, tra una sterzata di qua e una ripartenza a fil di pensilina di là, succedesse quello che pensavo.

Ecco, appunto: il motore dell’autobus, che rantolava come mia nonna con l’angina, si spense. Come sempre, senza fretta ma inesorabili, i morti che ancora deambulavano raggiunsero il bus e lo circondarono. I vetri erano troppo sporchi e c’era troppa poca luce perché capissi chi stava al volante. I futuri gitanti colpivano con manate insistenti ma impotenti le fiancate del mezzo: avevano il tonno in scatola ma nessun modo per aprire la lattina. Anche uno scimpanzè intontito da dieci anni di zoo e cibo lanciato dai turisti avrebbe escogitato un sistema per mettere le mani su quella bella carne viva e calda, ma col cervello infiltrato dagli scarafaggi non potevi architettare granché. Nel frattempo, il disco volante dei gorilla si era alzato di qualche metro da terra e galleggiava nell’aria in silenzio.
Avevo una bruttissima sensazione e iniziai a sentirmi come un topo in trappola.

(4 - continua - qui la prima, la seconda e la terza puntata)
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lunedì 22 settembre 2008

Filipino rock


Qualche giorno fa ascoltavo i Journey e pensavo ad Arnel Pineda.
Eh? Journey? Pineda? E chi cacchio sono?
Andiamo con ordine, incolte moltitudini. Intanto, per darvi un indizio, pensate a come vi sentireste se un giorno vi trovaste a cantare col vostro gruppo preferito, davanti a migliaia di persone. Sarebbe tutto bellissimo?

I Journey sono un autentico mito dell'arena rock americano, esplosi all'inizio degli anni 80. Ottimi musicisti (un paio venivano dal gruppo di Carlos Santana), fecero il botto con una serie di album dal grande sapore radiofonico: melodici, accattivanti, con qualche schitarrata e le classiche ballatone da cucco.
L'ingrediente segreto dei Journey - forse uno dei primi gruppi musicali a diventare protagonisti di un videogame: una specie di orrido flipper anni 80 per l'Atari 2600 - era però la voce di Steve Perry, tanto piccoletto di statura quanto gigantesco dietro il microfono. Sicuramente lo avete visto: era una delle voci più suggestive, insieme a Springsteen, in quel terribile guazzabuglio di "We are the world" (il nanetto con l'orribile capigliatura che canta dopo Kenny Loggins, all'incirca al minuto 2.30).

Come per tutti i gruppi-simbolo di una stagione musicale, anche i Journey intrapresero presto il viale del tramonto: poco dopo la metà degli anni Ottanta andarono ciascuno per conto proprio. Neal Schon e Jonathan Cain (rispettivamente chitarra e tastiere) vissero un'altro effimero momento di gloria con i Bad English del mitico John Waite. Nel 1995 - al finire del riflusso grunge e con le prime reunion all'orizzonte - tornarono alla carica, ma fu un fuoco di paglia: il nuovo disco andò benino, ma Perry accusò seri problemi di salute e non partì in tour col gruppo.

Da quel momento Steve Perry praticamente è sparito dalla scena musicale. Recentemente si è detto che vorrebbe riprendere una carriera solista, ma poche settimane fa l'ex manager dei Journey commentò la notizia dicendo qualcosa del tipo: se non canti per dieci anni, la voce l'hai persa. Ma questa è un'altra storia.
I Journey, dopo l'abbandono del loro marchio di fabbrica, intrapresero la china discendente: negli ultimi dieci anni, con diversi cantanti, sfornarono album poco convincenti e lontani dalla magia dei giorni d'oro.

E qui arriviamo al nostro Arnel. Filippino, nato nel 1967, ha alle spalle una intensissima carriera musicale tra Filippine e Hong Kong: dischi solisti, una raffica di gruppi e dischi a partire dal 1982. Nel 2007 su You Tube finirono diversi video di Arnel che cantava cover dei Journey, degli Aerosmith. Pochi mesi dopo Neal Schon, che si ritrovava senza cantante dopo l'abbandono di Jeff Scott Soto, vide questi video e contattò l'amico di Pineda che aveva caricato i filmati.

Scrisse ad Arnel per proporgli un'audizione ma il nostro, come succede di solito, pensò che la mail fosse uno scherzo. L'amico faticò molto per convincerlo a rispondere: neanche dieci minuti dopo, Schon telefonò a Pineda. Nel febbraio 2008, la favola iniziò davvero ed Arnel si ritrovò sul palco coi Journey in Cile, davanti a 20mila persone. "Per un tipo come me è surreale - racconta a Rolling Stone Usa - Una specie di miracolo".

La sua voce, incredibilmente simile a quella di Steve Perry, rivitalizzò il gruppo. ("Vederlo cantare è qualcosa di soprannaturale: siamo finiti in una macchina del tempo", racconta Cain).Il nuovo disco - "Revelation", un doppio che, con mossa abilmente astuta, mette insieme un cd coi classici del gruppo ricantati, un disco di canzoni nuove e viene venduto a prezzo speciale nella colossale catena di market Wal Mart - ritrae il gruppo in un momento di grazia. Esordisce al numero 5 della classifica americana a giugno e ha finora venduto 441mila copie. I Journey partono per una lunga tournee americana nelle arene. Un'autentica resurrezione: una media di 13mila spettatori a concerto, sesto tour più redditizio dell'estate 2008.

Ma tutte le favole hanno un risvolto amaro. Arnel soffre subito con il meccanismo implacabile dello show business americano. Così racconta a Rolling Stone: "È molto triste - dice - Ci sono giorni in cui crollo e piango. Questo è un lavoro che sto facendo per la mia famiglia: è l'unica consolazione che trovo". La vita on the road è "tutta bus, palco e microfono": "Non ho mai modo di fare un giro e camminare - racconta Pineda - Mi svegliano per il soundcheck, poi aspetto fino alle nove per lo show: è un bellissimo lavoro, ma anche una maledizione".

Riempire le scarpe di qualcun altro non è mai un lavoro facile. Si pensi a Tim Owens, chiamato a sostituire Rob Halford nei Judas Priest e poi sacrificato per il rientro del figliol prodigo. Chissà invece come se la caverà Benoit David, il canadese che cantava in una tribute band degli Yes e che è stato assoldato per sostituire in tour l'etereo ma malandato Jon Anderson proprio nello storico gruppo progressive. Ma nel mondo della musica, le favole riescono ad avere un lieto fine?
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Linked In per gli internauti in affari


La conoscenza è potere, diceva il filosofo Francis Bacon. Ma le conoscenze lo sono di più: tutti sappiamo infatti che i rapporti tra persone possono portare nuove occasioni in tanti campi . Internet è uno strumento potentissimo per entrare in contatto con gente sparsa in tutto il mondo. C’è chi ha capito che questo sistema può servire per cambiare lavoro o chiudere nuovi affari e non solo per ritrovare i compagni di scuola, mietere conquiste e fare bisboccia. È la filosofia di Linked In, definito il “Facebook dei grandi”: il web 2.0 - quello imperniato sui contenuti prodotti e diffusi dagli utenti - può cambiare la vita.

Firenze è uno degli epicentri italiani di un fenomeno che tocca già 10mila persone in tutta la penisola: gli utenti si associano per portare nel mondo reale quella rete di rapporti intessuti on line. Florence In è la seconda associazione a nascere ufficialmente, dopo Milano (i pionieri, partiti tre anni fa, a quota 5mila iscritti). Ma ci si sta già organizzando in una ventina di città e sta nascendo anche un coordinamento nazionale dei Club In. In città si parte dai 700 aderenti sui vari siti di social networking in cui esiste Florence In.

«I Club In uniscono il meglio dei due mondi – spiega Alberto Falossi, esperto di web 2.0 - Niente come Internet riesce a far incontrare le persone ma niente è come l’esperienza vera di conoscersi davvero». Anche perché, è il motto di Piercarlo Pozzati, presidente di Milan In, «gli affari si fanno con le gambe sotto il tavolo». La settimana scorsa il club fiorentino ha avuto il suo battesimo in un albergo cittadino: più di cento persone si sono ritrovate per guardarsi in faccia, scambiarsi i biglietti da visita e decidere le prossime mosse. Laura De Benedetto, presidente della neonata associazione, è la dimostrazione che Linked In a qualcosa serve: «Il mio attuale lavoro l’ho trovato così, ma c’è chi ha stretto nuove partnership o ha raggiunto nuovi clienti», afferma. Iscritta a Milan In, due anni fa si è trasferita a Firenze: «Insieme ad alcuni fiorentini con cui ero in contatto, - spiega – abbiamo pensato di replicare qui quell’esperienza aprendo un gruppo dedicato a Firenze».

Subito boom: in due giorni gli iscritti erano 100, e via crescendo. Il programma è chiaro è semplice: «Non vogliamo fare formazione né convegni – dice De Benedetto – Siamo un’associazione in cui possono conoscersi e confrontarsi persone che lavorano in aziende diverse». E non ci si fermerà all’aspetto professionale, secondo la presidente: «Faremo almeno due incontri al mese: uno di contenuto, perché stiamo lavorando su tanti progetti, e poi qualcosa di ludico come cene o una visita alle terme».

Ma dunque Florence In e i Club In sono una sorta di “fratellanza della raccomandazione”? Sì e no, secondo Pozzati. «Noi vogliamo diffondere la cultura delle reti sociali – dice – Le relazioni fanno la differenza nel mondo del lavoro: con Linked In si possono fare gratis le conoscenze giuste», senza ritrovarsi con ambigui «prezzi da pagare». Il merito però «non è mai disgiunto dalla sua rete relazionale». Se sei un incapace, insomma, non ci dovrebbe essere raccomandazione, virtuale o reale, che tenga. O così si spera.

(da "Il Firenze" del 22 settembre 2008)
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giovedì 18 settembre 2008

Quasi mille....

.... in due mesi di attività e con pochissima pubblicità siamo a quasi mille contatti... grazie a chi visita e ai pochi che si prendono la briga di scrivermi... Continua a leggere

Un'altra chicca


«Presidente le piacciono le mie scarpe?»
«Uh... sì, belle tonde... a mandolino… Bellissime!» Continua a leggere

mercoledì 17 settembre 2008

A proposito di prostituzione

L'avevo elevata a simbolo delle donne che si fanno un mazzo così per raggiungere i loro obiettivi (qui) e me la ritrovo a fare la velina telecomandata (notate il movimento degli occhi: sta leggendo un gobbo) per compiacere il presidente satiro. Ogni commento è davvero superfluo.

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martedì 16 settembre 2008

Senza titolo (per ora) - 3

La verità è che anche gli zombi sembravano indecisi sul da farsi. Chissà che cazzo gli passava per quelle teste morte, ma di sicuro i gorilla spaziali non erano contemplati dalle loro definizioni di cibo.

Mentre continuava quello strano balletto diretto dai fucili, osservai meglio la scena. Gli scimmioni sembravano usciti da un film di fantascienza degli anni 60, di quelli sfigati dove si vedeva da lontano che c’era uno che si dimenava dentro la pelliccia. La moda sul pianeta Banana non doveva essere uno dei settori di punta. Io non mi sarei sentito molto togo con quelle mantelline viola e gli strani cappelli metallici a punta. Ma ridicoli o no, col cavolo che avrei riso in faccia a un bestione altro tre metri armato con un fucilone da Guerre Stellari solo perché era vestito in modo assurdo.

Per i morti viventi l’abbigliamento faceva il paio con l’encefalogramma piatto. Sembrava di guardare la foto di una festa di carnevale in stato di putrefazione. C’era un po’ di tutto: un rigido poliziotto senza un braccio, una vecchia con la parrucca messa male, uno che sembrava scappato dall’ospedale, un operaio con la testa mezza staccata. Altri erano ricoperti solo da brandelli indecifrabili di vestito. Quelli messi peggio facevano davvero schifo, perdevano qualche pezzo ad ogni movimento. Per terra si intuiva il movimento di centinaia di cose molto piccole e molto veloci: quella carne marcia gratis era una pacchia per gli scarafaggi. E la festa sembrava appena iniziata.

Che figura di merda, pensavo. Arrivano gli invasori spaziali e trovano le blatte padrone delle strade. I cugini di Copito de nieve ci avevano comunque salvato il culo. Poi forse ci avrebbero usato come schiavi per trasportare i caschi di banane o farsi sventagliare via le mosche, ma la situazione era già palesemente fuori controllo quando la loro navicella era apparsa nel cielo.

Dalla sera prima, infatti, eravamo diventati tutti comparse di un film di Romero, barricati in casa perché gli obitori degli ospedali sputavano fuori cadaveri che si supponeva aspirassero a fare le inanimate comparse di CSI. Invece se ne andavano a spasso a mordere, e non so chi fosse più sfigato: se quelli che diventavano bocconcini freschi di cibo per zombi o gli altri che venivano morsi ma riuscivano a scappare.

Erano comunque fottuti: quella roba era contagiosa e, nel giro di un paio d’ore, si univano all’allegra combriccola di morti puzzoni che vagavano per le strade. Una qualche memoria della vita passata dovevano ancora averla. Immaginati che sorpresa: ti piomba a casa la nonna morta da vent’anni e invece di mettersi a fare le frittelle che adoravi da bambino, cerca di mangiarti. Era successo a me, ed ero stato fortunato a filarmela. Correvo e mi ripetevo: ma di cosa son fatte le tombe oggigiorno?

Nessuno sapeva che fine avesse fatto quell'idiota del sindaco. Me lo vedevo che prendeva il sole ai Caraibi, coi capelli tinti, i baffoni alla Village People e l’aria di uno che fa finta di niente. Che poi quella ce l'aveva normalmente: lo sapevano tutti che era un cretino calzato, vestito e impomatato. Polizia e carabinieri riuscivano a stento a difendere poche zone della città, stranamente quelle intorno alle loro caserme. Ma non è che potessimo pretendere miracoli: nessuno era attrezzato per quello che stava succedendo e le forze dell’ordine, in attesa di capire se la cosa era curabile, tentavano di acchiappare quanti più morti possibile senza fare troppi danni. Li chiudevano da qualche parte nella speranza di guarirli.

Secondo me non avevano capito un cazzo. Ora che sembravano pure in grado di sintonizzarsi tra loro e muoversi come una cosa sola, c’era solo da aspettarsi il peggio. E poi cosa volevi curare, la morte? Hanno la carne che si stacca dalle ossa ad ogni passo e puzzano come un maiale che si è rotolato per 400 anni nelle fogne di Calcutta. L’unica cura era un bel colpo in testa, un po’ di benzina per smaltire i resti e, scusa nonna, facciamo finta non sia successo nulla.

(3 - continua - qui la prima e la seconda puntata)
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Firenze: studenti, odissea-casa.


Tutti a caccia, tra il timore di essere spennati e la paura di finire a dormire sotto i ponti. Sono questi i giorni in cui, taccuino e telefono alla mano, i nuovi (e vecchi) studenti fuori sede dell’università di Firenze intraprendono la via crucis dell’alloggio. L’anno scorso erano 22mila e solo poco più di mille tra loro hanno trovato spazio nelle Case dello studente dell’Agenzia regionale per il diritto allo studio. Tutti gli altri devono affidarsi al libero mercato. Spulciano gli annunci appesi vicino alle facoltà – tanti da coprire interi muri - o pubblicati su Internet, telefonano per fissare appuntamenti e poi macinano chilometri su e giù per la città alla ricerca della stanza che li ospiterà per il nuovo anno accademico.

«Purtroppo questo è il periodo peggiore: la domanda è altissima e le case migliori vengono occupate subito», dice Pierluigi, lucano di Lauria, iscritto al quinto anno di Farmacia. «Il prezzo per una singola si è ormai assestato– aggiunge consultando gli annunci esposti vicino alla facoltà di Lettere – La media è 350 euro, spese escluse». Ma la spagnola Tami, studentessa di Salamanca, tornata in riva all’Arno dopo un’esperienza da Erasmus due anni fa, non si capacita della crescita dei prezzi in un biennio: «È un vero e proprio abuso: per una camera singola ci vogliono 400 euro – protesta – E a volte ti ritrovi in stanze di passaggio per gli altri inquilini o qualcuno vuole affittarti un letto nella cucina abitabile».

A proposito di Erasmus, il ventenne belga Jonathan gira spaesato vicino all’ingresso di Lettere, in piazza Brunelleschi: «Da noi il sistema è completamente differente – racconta – Dall’annuncio non posso farmi un’idea della casa perché non ci sono foto, e nessuno mette l’email». Lorenzo di Pistoia, neoiscritto a Lingue, è ancora indeciso: curiosa tra le offerte, ma non sa «se vivere qui o fare la spola: l’abbonamento ai mezzi costa 70 euro, mi converrebbe». Opterà per un posto letto in una doppia la siciliana Antonella, matricola di Giurisprudenza, perché «le singole sono care»: l’importante è «essere tutte donne in casa, preferisco così».

Per gli stranieri la convivenza tra i sessi non è un problema: lo ribadiscono le tedesche Anna e Franziska. La madrilena Marta è scoraggiata dopo 20 visite infruttuose: «Finora ho visto case in cattivo stato o dove vivevi coi proprietari o dove preferivano italiani», dice mentre riordina decine di numeri di telefono presi dagli annunci. La sua via crucis non è ancora finita.

(da "Il Firenze" del 16 settembre 2008)

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"Casa fighissima": in bacheca scatta il marketing

Dai 170 ai 300 euro per un posto letto in una camera doppia, dai 320 ai 500 euro per una singola: tra questi estremi, ai quali spesso vanno aggiunte le spese per riscaldamento e condominio, si muove il mercato delle case per studenti a Firenze. Un mercato dove, fino a pochi anni fa, l’affitto “in nero” la faceva da padrone, almeno a sentire gli studenti che in questi giorni cercano sistemazione.

Negli ultimi tempi, così osservano i fuori sede più esperti, l’offerta di un contratto regolare è più frequente: «Ma tanti, quando chiedi, sorvolano», commenta qualcuno. Gli annunci tappezzano le strade adiacenti alle facoltà universitarie: in via Alfani e piazza Brunelleschi, per esempio, ci sarebbe da perdere la testa tra gli strati di fogli ingialliti dal sole. Anche in via Forlanini, sulla quale si affaccia il polo di Scienze sociali, le offerte colonizzano muri, lampioni, alberi, palizzate di cantieri. Chi offre stanze o posti letto le tenta tutte per catturare l’attenzione del possibile inquilino: grafiche curate, disegni, indicazioni dei vantaggi.

Qualcuno forse esagera, vantando una «casa aperta ad ogni iniziativa»: chissà che significa. I più si limitano ad elencare la vicinanza alla facoltà o alle linee di trasporto e segnalano i bonus disponibili: tra le più evidenziate, la connessione ad Internet (che a volte richiede un canone a parte) o il posto auto/bici. Si tentano anche la strada dell’informalità - «Cercasi gente simpatica» o «camera doppia fighissima» - o le descrizioni degne di un catalogo viaggi: «ampio terrazzo per le vostre cene, Tv lcd per gustare film ai massimi livelli».

Per i più chic c’è anche «il camino in soggiorno». Altri vorrebbero limitare al massimo la seccatura di avere gente per casa e accettano inquilini «preferibilmente per la settimana corta». Per una ragazza, almeno a vedere la percentuale di annunci rivolti alle sole studentesse, il compito di trovare alloggio sembra più semplice: l’italica convinzione che le donne siano più adatte a mantenere una casa in ordine è dura a morire.

(Da "Il Firenze" del 16 settembre 2008)
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La difficile vita del fuorisede a Firenze


Traffico, disorganizzazione, prezzi assurdi: sono gli sprazzi di vita da fuori sede nella difficile Firenze proposti dal sito Studenti.it, uno dei più importanti punti di riferimento per l’universo studentesco italiano, in una recente mini inchiesta. Tra affitti e spese varie, “come se la passano gli studenti che scelgono di studiare in un’altra città”: questo il tema posto sul forum del portale. «Firenze mi piace tantissimo ma ha una organizzazione bizzarra», risponde Rikard. «Il servizio autobus è scadente, di notte o si prende un taxi o si va a piedi». Anche per Minnie2002 uno dei problemi sono i trasporti: «autobus fermi nel traffico, anche 40 minuti per arrivare in centro nelle ore di punta».

Firenze è «cara nel vivere quotidiano, la spesa e lo shopping sono improponibili», denuncia Mara88 mentre per Simona il centro città è «molto malmesso, sporco e malfamato ma carissimo e invaso dai turisti». Tanto che Gaia preferisce la periferia «tranquillissima, anche se ci sono pochi servizi». L’ateneo cittadino se la cava con una stentata promozione: «ben organizzato, ma le sedi sono disperse e le segreterie difficili da raggiungere», dice sempre Mara88. Però, a fronte di tasse «altissime», «non viene offerto nessun servizio universitario», protesta Glenda84. I fiorentini hanno brutta fama: «gente scortese e poco disponibile», «pensano di essere al centro del mondo». La vita notturna si fa a cinghia tirata: «nei locali paghi 9-10 euro per un drink», si lamenta Andrea. Unica alternativa: il “botellon” alla spagnola in Piazza Santa Croce. “Sceriffo” Cioni permettendo.
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lunedì 15 settembre 2008

Ago, filo, eBay... e tanta fantasia

Stoffe, una vecchia macchina da cucire, la propria passione e Ebay: così Sophie Liard, francese ormai di casa a Firenze, si è inventata un lavoro di sana pianta. Dal 2005, infatti, vende su Internet le borse che confeziona a casa sua, in una stanza che fa da atelier, magazzino, ufficio vendita e spedizioni.

Non potrebbe essere altrimenti perché la 32enne originaria di Besançon, nella Francia orientale, è davvero l’anima e il sangue della sua microimpresa: la filiera, nel suo caso, è cortissima. «Ho iniziato a mettere in vendita le borse che facevo per hobby, senza nessuna formazione – racconta – Iniziai con Ebay, perché le tariffe erano basse e potei aprire facilmente un negozio on line». Arrivata in Italia con una borsa Erasmus, Sophie rimane a Roma per un master ma stenta a trovare collocazione. Trova lavoro come segretaria al Pignone, e intanto tenta la strada del commercio elettronico.

Gli inizi non sono facilissimi: «C’erano poche ragazze su Ebay, ma il riscontro è stato subito positivo», dice. Per i primi sei mesi, infatti, si procede al ritmo di 4-5 borse vendute alla settimana, poi piano piano il giro di affari si allarga. In pochi mesi diventa un’attività vera e propria e nel 2007, i pezzi venduti sono più di 900. L’anno in corso registra una breve flessione per la “collezione estiva”: «È stata più dura, ma conto di recuperare con l’inverno», osserva Sophie.

Che poi, non si può neanche parlare di “collezioni”: le borse Gervaise (marchio registrato) sono quasi pezzi unici artigianali, che di solito finiscono in mano a donne italiane tra i 15 e i 25 anni («Il mercato estero richiederebbe troppo lavoro», dice). I picchi di vendite si hanno, come sempre, ad inizio stagione. Disponibili in tre modelli – pochette, media e grande da spalla – con prezzi differenti (13, 25 e 40 euro) le creazioni di Sophie nascono da «scampoli di tessuto di 2-3 metri» che acquista da un fornitore di fiducia: «Da un metro quadro escono 8 borse – spiega l’imprenditrice tuttofare – Sono stoffe di altissima qualità, tutte fatte in Italia e usate nell’alta moda».

Ci vuole almeno un’ora di lavoro per realizzare un pezzo: in una giornata ne escono otto, di solito, tutte realizzate con una robusta macchina da cucire Singer professionale, scovata per caso: «Credo sia un modello degli anni Sessanta: l’ho vista nella vetrina di un tappezziere, l’ho comprata per 100 euro – dice Sophie - È bastato cambiare un pezzo e va come un treno: con pochi punti è fatta». Alle otto ore di cucitura si aggiungono i compiti di gestione della vetrina Ebay, le foto necessarie per mostrare ai clienti la merce, la preparazione e spedizione dei pacchi. Un lavoraccio, che Sophie fa tutto da sola per ricavarne «un piccolo stipendio».

I sogni non mancano, come «dedicarsi alla parte creativa e gestionale» e lasciare a qualcuno «il lavoro di cucito, dove sono lenta». Intanto c’è la media di mille contatti a settimana della sua pagina Ebay, raggiungibile dall’indirizzo www.borsedistoffa.com: «On line è più facile capire cosa piace e cosa no – conclude Sophie – E poi, per raggiungere una clientela così vasta, quanto mi sarebbe costato un negozio in centro?».

(da "Il Firenze" del 15 settembre 2008)
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L'inglese, questo sconosciuto...


Lucca, sabato 13 settembre 2008. Outlet Benetton... Continua a leggere

venerdì 12 settembre 2008

Questa è per Tomoko...

Quando vi dicono che Facebook è il regno dei perditempo, hanno ragione. Questo però non esclude che, qualche volta, si possa davvero entrare in contatto con persone che, in altro modo, mai si sarebbero potute conoscere.

A me è capitato con Tomoko. Giapponese, 28 anni, aveva trascorso un bel periodo in Italia negli anni scorsi e aveva imparato l'italiano. Considerando la barriera culturale che divide la nostra lingua dal giapponese, si può dire che Tomoko scrivesse in italiano meglio di molti di noi. Da quando ci siamo "conosciuti" (moltissimi messaggi e una velocissima ma disturbata chiamata su Skype), mi è capitato di parlare con lei di ogni cosa. Le raccontavo della mia vita e delle mie difficoltà fiorentine, le parlavo della mia ragazza, ci scambiavamo opinioni sulle differenze tra i nostri due mondi. Lei mi raccontava di una travagliata storia che stava vivendo con un ragazzo italiano o di italiani famosi in Giappone (ma sconosciuti da noi).

Avevamo in comune la passione per i film di Hayao Miyazaki e a volte ci sorprendevamo per come, quasi coetanei, su tante cose avessimo un background "culturale" comune. Oppure come io, grazie agli anime divorati fin da bambino, capissi certi meccanismi della società giapponese.

Era un'amicizia "virtuale" (per il mezzo che usavamo) ma sincera. E anche molto pudica, come impone la mentalità dei giapponesi. Per questo non le avevo chiesto nulla quando, sul suo profilo, aveva annunciato che avrebbe dovuto subire un'intervento chirurgico. Ieri, aprendo il mio account, mi sono sorpreso di non trovare il suo "buongiorno". Mi scriveva ogni giorno, anche solo per salutarmi. Due giorni fa ci eravamo scambiati messaggi sull'esperimento al Cern e sul fatto che da noi ne parlavano tutti i giornali e in Giappone invece non c'era neppure mezza riga. Oggi invece non mi scrivi?, ho pensato.

Stamane mi è arrivata, tramite amicizie comuni, la notizia. Ovviamente non ci credevo e ho cercato tutte le possibili conferme. Ma sembra proprio che non sia un terribile scherzo, la sorella ha contattato un po' tutti: Tomoko non si è svegliata dall'anestesia. E io, per quanto non la conoscessi di persona ma fossimo solo amici di penna, sono triste.

Non so se fosse religiosa, nè sono molto ferrato sui culti praticati in Giappone. Spero solo che qualcuno di benevolo l'abbia accolta, da qualche parte in cielo, possibilmente su una stella.
甘いさよなら友人に送る
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mercoledì 10 settembre 2008

L'informazione che non informa

Non so se capiti anche a voi, ma ormai, all'ora di cena, quando guardo il Tg1 mi sembra di essere sintonizzato su una specie di "Camera (dei deputati) cafè". Al momento della "nota politica", condotta inspiegabilmente da piazza Montecitorio anche quando non succede nulla, il giornalista di turno lancia il rullo col ping pong sull'argomento del giorno (almeno nel recinto miope della politica italiana).

Fateci caso: ci sono sempre gli stessi. Non ho tenuto il conto, perchè di solito sto mangiando e non riesco a prendere nota, ma Italo Bocchino, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Gasparri, Massimo Donadi, Marina Sereni etc sono dei veri professionisti della dichiarazione. La cosa più terrorizzante è che le inquadrature, di solito, sono sempre le stesse: quasi quasi sospetterei che, vista la genericità di alcune affermazioni, questi si siano fatti una videocassetta con una serie di frasi fatte all'inizio della legislatura. Come con Luca e Paolo: gli stessi personaggi che ruotano davanti a una camera fissa.

Ma l'aspetto davvero più terrificante è questo: che ruolo sta svolgendo l'informazione pubblica quando mi dice che Gasparri la pensa così e invece Antonello Soro la pensa cosà? Aggiunge qualcosa alla mia comprensione della realtà e dell'attualità del mio paese oppure, come è sempre stato, docilmente porge il microfono al potere perchè catechizzi i sudditi e finga di accapigliarsi su problemi a volte ridicoli?
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La canzone del giorno...

Gli amici Gamma Ray e i buchi neri... "Beyond the black hole", un titolo appropriato se le cose al Cern mai andassero male

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It's the final countdown!


I guess there is no one to blame

We're leaving ground

Will things ever be the same again?

It's the final countdown

The final countdown

(tra mezz'ora tutti pronti con lo spumante per festeggiare che non siamo finiti in un buco nero) Continua a leggere

martedì 9 settembre 2008

Senza titolo (per ora) - 2


Un’esplosione fortissima mi riportò indietro dalle mie seghe mentali. Un’auto parcheggiata appena fuori dal distributore era saltata in aria colpita da una laserata. Il gruppo di zombi che ciondolavano là vicino volò in mille pezzi come una costruzione Lego quando si schianta a terra. Dalla finestra mi piombarono addosso un bel po’ di brandelli fumanti di cadavere. Puzzavano in modo terribile, dopo pochi secondi nell’ufficio l’aria diventò irrespirabile. Mi sforzai per non vomitare. Almeno questa merda coprirà il mio odore, mi consolai.

A poche decine di metri dalla mia porta, un gruppo di sei gorilla difendeva la posizione. Davano le spalle al piccolo disco volante luccicante col quale erano atterrati ed erano circondati da almeno cinquanta morti. Non gli stavano addosso, rimanevano a distanza di sicurezza. La cosa terrorizzante è che si muovevano come un banco di pesci, sembravano un’unica intelligenza elementare e ondeggiavano tutti insieme non appena le scimmie puntavano i fucili. Lo scontro era in fase di stallo dopo la prima, furibonda scarica di colpi. Gli zombi disintegrati venivano rimpiazzati da altri che, con passo da marionetta, si univano a gruppetti da ogni parte.

Non capisco nulla di psicologia dei gorilla, avevo giusto guardato qualche documentario di Piero Angela e quel film sulla scienziata che viveva nella giungla. Ma era chiaro che i bingo bongo non si aspettassero il comitato di benvenuto. L’avevano smessa di sparare come cowboy ubriachi e si guardavano intorno circospetti. Qualcosa mi diceva che quei fucili non avevano le pallottole infinite come nei videogiochi. Ma cosa erano venuti a fare? E perché non se la davano a gambe sulla nave spaziale?, mi domandai.

(Stacco repentino, come in una puntata dei Griffin.
Didascalia: “Poco tempo fa in una galassia lontana lontana”.
Il re Kong guarda la mappa del pianeta Terra. È stesa su un tavolo intorno al quale saltellano a quattro zampe i pezzi grossi delle forze militari. Il gorilla capo si esprime con grandi e pensosi gesti. Traduciamo dal gorillese: «Dunque, rifacciamo i conti», dice.

Di volta in volta prende in mano modellini di dischi volanti e di altre astronavi a forma di banana e li posiziona sul planisfero terreste. «Queste divisioni vanno qui in America, sono sufficienti per prendere il controllo delle città più importanti». Gli altri annuiscono. L’operazione va avanti per alcuni minuti, mentre il sovrano ricapitola la distribuzione dell’esercito d’invasione. Quando il Risiko scimmiesco è finito e tutte le miniature sono disposte sulla cartina, uno dei generali prende la parola con aria imbarazzata.

«E che facciamo col principe Kung, signore? Lo mandiamo in prima linea?», chiede.
«Per la pelliccia di Donkey Kong, me l’ero dimenticato!», esclama il sovrano. «Non ci sarà modo di tenerla a casa, quella testa calda».
«Inventiamoci una missione per lui. Facciamogli credere che gli facciamo fare qualcosa di importantissimo mentre lo stiamo semplicemente tenendo al sicuro», interviene un gorilla anziano, con il petto coperto da una serie impressionante di medaglie.

«E dove lo mandiamo? Ci vuole un posto dove non possa farsi male neppure per sbaglio», ribatte re Kong.
Il vecchio generale prende un pesante dossier e inizia a sfogliarlo velocemente. Trova quello che cercava, ridacchia con un suono gutturale e dice agli altri: «Ecco! Lo mandiamo qui: Ca-glia-ri. Troveremo una scusa per trattenerlo là».
Re Kong si rasserena: «Ottimo, generale Grodd! Così Kung rimarrà fuori dai guai».

Le ultime parole famose, pensai, mentre quella fantasticheria sfumava dalla mia testa.)

(2-continua - qui la prima puntata)

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venerdì 5 settembre 2008

Perchè io dovrei salvare Alitalia?


Se - come dice l'autorevole settimanale Economist (qui) - il salvataggio del colabrodo volante Alitalia ci costerà 125 euro a cranio (è facile salvare qualsiasi imprese, se accolli le voragini di bilancio alle casse pubbliche), da cittadino che paga le tasse mi domando per quale motivo dovrei "partecipare" a questa operazione e quali benefici ne trarrei.

Certo, posti di lavoro, prestigio nazionale e bla bla. Ma io ci metto 125 euro delle mie tasse, che mi date in cambio? Uno snack? Una salvietta rinfrescante? Una rivistina? O (e sarebbe più gradito anche se ho ancora sullo stomaco una cipolla lessa mangiata anni fa su un volo internazionale) mi darete un bel biglietto omaggio poichè, anche coi miei soldi, vi sto salvando la baracca? Visto che tanto devo pagare... Continua a leggere

giovedì 4 settembre 2008

Firenze: Università, ansia e paura per i primi esami


Gli esami non finiscono mai. Anzi, all’università di Firenze, adesso sono anche preceduti dai “test di autovalutazione obbligatori”. Lo hanno vissuto sulla propria pelle ieri migliaia di aspiranti matricole delle facoltà di Economia e Ingegneria, seguite oggi da quelle di Giurisprudenza e via via dalle altre facoltà non a numero chiuso. Tutti con carta d’identità e ricevuta del versamento dei 15 euro di quota alla mano per sottoporsi alla novità dell’anno accademico fiorentino e verificare le “conoscenze minime” necessarie nel corso di studi prescelto. 

L’ostacolo – ma le modalità cambiano a seconda della facoltà - è costituito da una serie di quiz di logica, matematica e conoscenza verbale da risolvere in un’ora e mezza: per tanti non sono una novità, sono stati provati e riprovati nelle ultime settimane grazie al sito dell’ateneo. L’atmosfera all’appello, nel polo sociale di Novoli dove si svolgono i test per Economia, sembra rilassata. Qualcuno passeggia avanti e indietro in attesa che venga chiamato il proprio nome: in fin dei conti è pur sempre un esame. «Sono ansioso anche se ho fatto le prove sul sito», dice Matteo, 19 anni, di Montemurlo. Per Federica, fiorentina diciannovenne, «pochi hanno davvero studiato». E poi è «inutile, almeno per me – aggiunge - So che in matematica andrò male, ma nel mio indirizzo di studi non ne farò: mi basta passare». 

Il coetaneo Francesco, di Montecatini, è meno sereno: «Ho fatto i quiz, ma non mi sono preparato moltissimo – racconta – Sono solo tre materie, mi sentirei un incapace se non ce la facessi». I risultati delle prove potrebbero però stroncare i sogni di gloria di molti studenti: chi vedrà la propria iscrizione come “consigliata con lacune” o “sconsigliata”, partirà con l’handicap. Nel primo caso potrà recuperare il gap con i corsi offerti dalla facoltà, nel secondo potrà iscriversi ma non potrà sostenere esami finché non supererà la prova d’appello del test, col rischio – in caso di seconda bocciatura – di buttare a mare l’anno. 

Questo è uno dei punti maggiormente contestati dalle rappresentanze studentesche: lo confermano Stefano e Tommaso, studenti della Lista Aperta che danno indicazioni ai futuri colleghi in un Matricola point autogestito. «C’è molta confusione – dicono – Molti ragazzi non conoscono le novità della riforma dell’ordinamento né sanno cosa succede se non passano il test». Ma forse, scherzano, «questo non è chiaro nemmeno alla stessa Università». 

Trascorsi i 90 minuti, le aspiranti matricole si riversano fuori dalle aule e approfittano del rinfresco offerto da Stefano e Tommaso. Per Beatrice, «fiorentina di 20 anni, è «stato come me l’aspettavo». Unica perplessità: «In aula l’hanno presentato come test selettivo, mentre in realtà è “compromettente”: se va male, si ripete a dicembre». I mugellani Irene e Simone, 20 anni, si lamentano del tempo a disposizione: «Avevamo 30 minuti per sezione, erano categorici». La matematica turberà invece i sogni di Federico, 19 anni di Incisa Valdarno, e Sara, coetanea di Prato: «È stata una brutta sorpresa», dice il primo. «Era più difficile del previsto – sospira Sara – Eppure mi ero preparata anche col libro: sono pessimista».

(da "Il Firenze" del 3 settembre 2008)

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