Visualizzazione post con etichetta gorilla marziani. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta gorilla marziani. Mostra tutti i post

venerdì 6 marzo 2009

Senza titolo - 15



(Qui le puntate precedenti)

Dal basso, con gli occhi vitrei e inespressivi, la faccia rigida, i baffi paradossalmente perfetti e i vestiti firmati ma imbrattati, mi fissava il più classico esempio di giornalista zerbino delle nostre parti: uno che aveva le mani solo per fare da reggi microfono del potentino di turno e la bocca come fondina per una delle lingue slappa-deretani più formidabili del mondo libero.

Adorava esercitare la sua sopraffina arte linguistica soprattutto nei confronti di quel mezzo scimunito che faceva il sindaco. Oh, a me dei giornalisti non me ne sbatteva un cazzo. A volte mi sembrava soltanto gente che non aveva trovato di meglio da fare nella vita e sapeva scrivere solo in stile pensierino-scemo-delle-elementari: cose idiote scritte per lettori rincretiniti. Ma dovevano sopravvivere e potevo capire una certa benevolenza nei confronti di chi comanda. Quel bastardo però l’avrei impalato vivo e lasciato in pasto alle cornacchie, se solo avessi potuto. Penso che tutti quelli che erano stati a scuola nei miei anni la pensassero allo stesso modo. Ma lo stronzo non era più un problema, a meno che non gli si capitasse a portata di mascella.



In una serie di servizi per quello schifoso telegiornale che dirigeva, lo stronzo ci aveva riservato un bel maltrattamento televisivo per una settimana filata: avevamo iniziato lo sciopero a scuola per un fracco di buoni motivi. Primo, non funzionava il riscaldamento e ci gelavamo le chiappe in quell’edificio che sarebbe stato inospitale pure per piazzarci la Batcaverna. Secondo, non c’era giorno che passasse senza che le pareti scricchiolassero un pochino. Nei decenni, da quando cioè avevano intonacato le pareti nel Neolitico inferiore, si era affermata la tradizione di segnare l’allungamento delle crepe nei muri con la data: tutti eravamo convinti che quella fosse l’unico segno che avremmo lasciato ai posteri del nostro passaggio terreno.

Sempre che la scuola non crollasse prima e con noi dentro: eventualità da non escludere a priori, visto l’allungarsi prodigioso di crepe nate (e puntualmente certificate) nei primi anni Settanta.

Se tutto questo non fosse bastato: non avevamo un cortile, non avevamo un campetto, non avevamo una palestra e all’ora di educazione fisica si cazzeggiava nei bagni. Dopo una serie di lamentele del resto del corpo docente, il preside Conch’e Ginogu (era calvo come una palla da biliardo) decise di fare qualcosa per salvare dall’alcolismo i prof di educazione fisica, che ormai erano diventati clienti premium del bar di fronte alla scuola. Così fece allestire una specie di palestra in una classe dismessa: due spalliere svedesi, una corda, due materassini marci e un canestro da mini basket che i meglio informati dicevano provenire dai Giochi della Gioventù del 1954.

Il canestro – mega delusione - era solo per figura: la palestra era al primo piano, sotto altri sfaticati tentavano di fare lezione. Perciò niente palleggi per non disturbare la classe al piano terra, nessun movimento troppo brusco né salti né per non accelerare il cedimento strutturale in corso e sperimentare rovinosi salti di classe attraverso il pavimento. Dal cazzeggio in classe si era passati dunque a quello nella palestra: qualche volenteroso tentò l’approccio con le spalliere svedesi ma un giorno una si staccò dal muro e venne giù come un abete segato in una foresta del Quebec. Capimmo che anche quelle erano per bellezza e decidemmo che ne avevamo le tasche piene di quella scuola.

(15 - continua)
Continua a leggere

mercoledì 10 dicembre 2008

Senza titolo (per ora) - 14


(Qui le puntate precedenti)

Quelli intanto avanzavano: potere delle lucine e del cibo in scatola. Erano almeno 50, la maggior parte di fresco ritorno dal mondo dei più, pure abbastanza puliti e ordinati. Ormai non mi facevano più nessuna impressione. Si può anche dire che, forse, non me ne avevano mai fatta.

Sotto sotto avevo sempre pensato di essere circondato da morti viventi: quando stavo in viaggio sull’autobus o andavo al supermercato facevo attenzione alle persone che mi circondavano. Nove volte su dieci era evidente che, se il cervello non era già spacciato, doveva essere in stato terminale. La differenza tra questi che cercavano la carne in scatola dentro un autobus e quelli che si fermavano incantati a sceglierla davanti a uno scaffale era solo l’apertura a strappo. Non mi spiegavo in altro modo tutti quei discorsi sulle “Isole dei Famosi” o le folle adoranti per quei cretini (stonati) che vincevano i programmi della tivu. Per non parlare di quelle che, in fila al super, si struggevano per qualche manzo microcervellato che faceva sospirare le troniste con i suoi capricci.


A proposito di televisione: nel gruppo che stava lentamente circondando il nostro autobus vidi una faccia conosciuta. «Silvio, molla i comandi e vieni qua – urlai – Guarda chi c’è!». Mi raggiunse sbuffando («Questa situazione non mi piace!») e mi aiutò ad aprire un finestrino. Subito entrò quella maledetta puzza di cadavere che appestava ormai tutta la città. Qualche scarafaggio del reparto vettovaglie cercò di fare il grande salto verso il finestrino aperto, altri tentarono la scalata diretta in cordata tipo Messner sul Nanga Parbat. I cosi invece allungarono le braccia non appena videro sbucare le nostre teste, ma eravamo in alto e al sicuro. A vederla sotto un’altra prospettiva sembravamo i Beatles che facevano capolino per salutare la folla adorante dopo un concerto. Solo che Paul, John, Ringo e George al massimo l’avrebbero finita nudi e molestati sessualmente, se la folla li avesse raggiunti. Noi saremmo andati letteralmente in pasto al pubblico.

Indicai una faccia morta in mezzo ai nostri ammiratori: «Lo riconosci quello?». Aveva ancora la giacca da gelataio e la cravatta con cui lo vedevamo spesso alla televisione. «Ma guarda lo stronzo – rispose Silvio – Devo provare pena per quel merda?». Ci guardammo: no, nessuna pena per una delle facce di bronzo peggiori mai apparse in una televisione.

(14 - continua)
Continua a leggere

martedì 2 dicembre 2008

Senza titolo (per ora) - 13


(Qui le puntate precedenti)

Il disco volante sparò un ultimo colpo sui caramba e poi volò via, lasciandosi dietro una facciata fumante e alcuni principi di incendio. La strada era libera, potevamo proseguire. Dalle finestre che non erano invase dal fuoco buttavano giù cadaveri carbonizzati e altre macerie. Qualcuno si stava già rianimando: carboni fumanti che cercavano di tirarsi su, uno schifo.
«Non voglio passare là davanti – mi disse Silvio – Quelli sono così incazzati che ci userebbero come bersaglio».

«Gira intorno al palazzo», gli proposi. Riaccese il motore e, lentissimo, cercando di non dare nell’occhio, si infilò nella strada che costeggiava i carabinieri dall’altro lato. Quelle finestre sembravano poco presidiate: doveva esserci un casino tale là dentro che tutti quelli abili e arruolati forse giocavano al tirassegno con gli ex amici risorti. O si facevano strappare le budella. Nulla di allegro, in ogni caso. Noi intanto gli passavamo sotto il naso e cercavamo di riacchiappare l’astronave dei gorilla.

Dopo poche decine di metri, incontrammo una piccola mandria di morti piantati come tanti pali in mezzo alla strada. «Porca puttana!», esclamò Silvio. Le luci dei fari li attirarono come le maledette zanzare che mi piombano addosso nelle notti d’estate appena lascio uno spiraglio di finestra aperta. Non le sopporto e non mi lasciano dormire, quelle minuscole puttane. Cioè, conosco un sacco di gente che non si sveglierebbe neppure nell’eventualità che tutti i bastardi poliziotti della scuola Diaz fossero piombati in camera ululando tipo indemoniati e avessero fatto esplodere le molotov che si erano portati da casa. Io sono uno di quelli cui bastava un cigolio del materasso per vincere fantastiche notti insonni.

E quando non dormi che fai? Ti dedichi ovviamente alla caccia delle succhiasangue ronzanti. Avevo sviluppato una tattica infallibile: mi acquattavo sotto il lenzuolo in stile Rambo. Aspettavo che la zanzara disorientata si avvicinasse a capire se c’era qualche spuntino. Quando me la sentivo ronzare vicino alle orecchie, con uno scatto felino accendevo la luce della camera. L’idiota svolazzante, colta di sorpresa, nove volte su dieci si posava subito sulla mia bella parete bianca e finiva spiaccicata con un preciso colpo di quotidiano arrotolato. A onor del vero, la mia parete non era più bianca da tempo ma a pois neri e rossi: la decoravano diverse generazioni di insetti distrutti. Avrei preferito qualche testa d’alce, ma ci sarebbero voluti troppi colpi di giornale.

«E qui che si fa?»: Silvio frenò a distanza dal muro di morti e mi guardò.
«Che ne dici di giocare a bowling? - abbozzai – Dobbiamo assolutamente seguire il disco volante».

(13 - continua)
Continua a leggere

martedì 25 novembre 2008

Senza titolo (per ora) - 12


(Qui le puntate precedenti)

«C’è un po’ di fuoco e parecchio fumo – iniziai –E poi… Poi, sì, vedo un braccio penzolante fuori dalle macerie. Forse c’è un cadavere, cioè almeno uno di sicuro», gli riferii.
Il mio compagno di sventura assunse una faccia pensosa. «Appunto. Guarda se si muove», disse.
Un’altra esplosione fece sobbalzare il nostro bus. I gorilla avevano colpito ancora. I resti della finestra, mattoni e calcinacci precipitarono sulla strada. Tornai a puntare la prima finestra col binocolo.

«Non c’è più! Non vedo più il braccio!», esclamai. Ci scambiammo uno sguardo.
«Che dici? Mentre sono sotto attacco avranno trovato il tempo di recuperare un compagno morto? – commentò Silvio – Oppure non sono più al sicuro là dentro?».
«Quante persone ci saranno?»
«Non ne ho idea». Si accarezzò il mento. «Penso qualche centinaio. Ma quanto credi che ci voglia per diffondere il contagio, soprattutto se quelli armati sono occupati?»
«Credo che bastino quattro o cinque morti a spasso per dieci minuti: se poi beccano una donna o un bambino sono fottuti», dissi.

Avevo visto gente sopraffatta perché non aveva la forza di uccidere chi l’aveva attaccata. Io stesso e Robi eravamo fuggiti davanti alla mezza classe elementare: spaccare la testa a un moccioso era decisamente troppo, anche nella barbarie in cui eravamo precipitati. Se, nella sede del comando, c’erano tutte famiglie che si conoscevano tra loro, un paio di contagiati sarebbero stati sufficienti a distruggerli. Mentre tu ripetevi «Mamma mamma, ma non mi riconosci?», quella ti aveva già staccato un braccio. Poi maresciallo, ti avrei voluto vedere a sparare in testa a tua moglie e ai tuoi figli piccoli che venivano a farti a pezzi. La famiglia a lungo andare ti fotte, l’ho sempre pensato.

«Mi hanno detto che ‘sti imbecilli in divisa tengono rinchiusi un bel po’ di morti da qualche parte – dissi ancora – Pensano di curarli». Silvio batté le mani in un gesto di incredulità e poi si accasciò sul volante borbottando parolacce. Io mi ero rotto i coglioni dello sparatutto spaziale e mi feci un giro di perlustrazione lungo i finestrini del bus. Non c’era un’anima in giro, viva o morta che fosse. Ma non sarei sceso da quell’autobus neppure se avessi visto Berlusconi infilato in un sacco di boxe a testa in giù. Occasione irripetibile, ma mi sarei risparmiato i due cazzotti che si meritava e l’avrei lasciato alle amorevoli cure degli straccioni dell’aldilà, che erano di sicuro nascosti da qualche parte. Ma forse l’avrebbero schifato pure loro, quel merda: troppo cerone, capelli finti, troppa robaccia nel sangue. Meglio un topo di fogna.

«In queste case qui, dici che c’è ancora qualcuno?», chiesi a Silvio osservando i palazzi circostanti.
«Sicuro – mi disse tirando su la testa – Stanno tutti ai piani alti, gli zombi hanno problemi a fare le scale: quando ho rubato l’autobus ne ho visto un gruppetto sbattuti fuori a calci in culo da una palazzina in viale Ciusa».
«Porca puttana, ma perché non me ne sono rimasto a casa allora?».
«Ma i tuoi genitori dove sono?», domandò l’autista. «Non mi hai detto un cazzo».
«Li hanno sfollati prima che arrivassero i marziani – dissi – Erano alla riunione del gruppo della parrocchia, mia madre mi ha chiamato per avvertirmi che stava succedendo qualcosa e li portavano via. Mi ha detto: «Rimani chiuso a casa, appena posso ci facciamo vivi». Ma non ho ancora avuto notizie». Mostrai il cellulare: «D’altra parte non sta funzionando nulla… E i tuoi?».
Alzata di spalle di Silvio. «Credo stiano bene, conoscendo mio padre devono essersi organizzati una specie di fortino nel palazzo. Io ho trovato questo coso aperto e in moto davanti a casa e non ho resistito all’idea di farmi un giro».
Continua a leggere

martedì 18 novembre 2008

Senza titolo (per ora) - 11


(Qui le puntate precedenti)

«Ma che cazz..», borbottò Silvio. Frenò e spense i fari. A metà del lungo rettilineo che tagliava il centro città e arrivava al porto c’era il comando dei carabinieri, un palazzone di architettura fascistoide, tutto fregi e finte colonne, sormontato da orribili statue di pietra in pose plastiche e ridicole. Forse l’autore di quelle opere epocali aveva anche le foto nel suo studio e, di tanto in tanto, le guardava con orgoglio o le faceva vedere agli amici artisti. Qualcuno avrebbe dovuto dirgli l’amara verità: facevano cagare. Avrei importato a mie spese un gruppetto di iracheni per tirarle giù come avevano fatto con le statue di Saddam.

Comunque, ogni volta che passavo là davanti c’era sempre un carabiniere tutto leccato di guardia sulla porta. La sua principale occupazione era quella di sminciare le ragazzine. Un giorno mi fermai dall’altra parte della strada e lo tenni d’occhio per un’oretta (non avevo un cazzo da fare, come al solito). Gli passarono davanti trenta sciacquette di età apparente tra i quindici e i venticinque anni, molte “vestite” per modo di dire, con perizomi a vista e tacchi che sembravano trampoli da circo. Ma lui non se ne perse una. Anzi, con qualcuna riuscì pure ad attaccare bottone, confermando la mia teoria che molte donne sono come le gazze. Per attirarle basta qualcosa di luccicante, come i bottoni di una divisa o un’auto figa o gli occhiali da sole a specchio.

Il palazzone fascista era diventato una specie di fortino. Le finestre ai piani bassi erano state sbarrate, come anche le porte d’ingresso. L’amico, se era ancora tra noi, non doveva avere tempo per guardare culetti ora, a meno che non apprezzasse le chiappe rinsecchite che vagavano per strada ultimamente. Di certo doveva essere occupato, perché c’era un bel conflitto a fuoco in corso: da tutte le aperture disponibili, quelli che stavano nel palazzo sparavano a raffiche contro il disco volante, fermo a mezz’aria davanti al palazzo. Pistole, mitra, fucili: sembrava Space Invaders dal vivo. I gorilla avevano già colpito la facciata: un principio d’incendio e un bel buco stavano là a testimoniarlo.

Meglio stare fermi e a distanza di sicurezza, convenimmo io e Silvio. Non eravamo gente da obbedire tacendo e tacendo morire: meglio fottersene tacendo e tacendo sopravvivere. La potenza di fuoco dei carabinieri era impressionante e sul guscio del disco volante brillavano le scintille dei proiettili che rimbalzavano via.
Silvio mi indicò il buco fumante nel palazzo e chiese: «Ci saranno morti?».
«Ma che cazzo vuoi che me ne freghi – sbottai – Quegli asini in divisa mi stanno sulle palle, che li facciano saltare tutti in aria».
«Sei il solito cretino, Ale. Guarda meglio». Prese un binocolo dal suo zaino e me passò. Misi a fuoco e puntai sulla facciata sventrata. Nonostante il buio, riuscivo ad avere una visuale nitida.
«Cosa vedi?», mi domandò Silvio col suo tono supponente.

(11 - continua)
Continua a leggere

martedì 11 novembre 2008

Senza titolo (per ora) - 10


(Qui le puntate precedenti)

Robi partì con la katana a mulinello e iniziò a far rotolare teste, ma i mocciosi sanguinosi stavano arrivando. Per guadagnare tempo, mi esibii nella mia apprezzata scivolata alla Pietro Vierchowod. Quando ci provavo nelle partite di calcetto all’oratorio, di solito finiva in rissa istantanea e pugni in bocca. Un tizio che odiavo, una volta, fece un’intera giravolta su se stesso e piombò in terra come un sacco di patate. Rimase a osservare il cielo per due minuti, nell’ansia generale. Poi si alzò, si tolse la polvere di dosso, rassicurò tutti sulle proprie condizioni e mi inseguì fino a casa correndo come una lepre. Altroché se stava bene.

Qui, se rompevo qualche gamba era pure meglio. Così quei bastardi sarebbero caduti e, invece di rialzarsi in tempi biblici - ma comunque rialzarsi - avrebbero iniziato a strisciare. Qualcosa di più facile da controllare. Avevo scoperto che le loro ginocchia cedevano con incredibile facilità: questo trucco mi aveva salvato il culo almeno un paio di volte. Cercai di arrivare al cadavere che stavano smembrando per afferrare qualche pezzo e lanciarlo in modo da trattenere almeno la banda che ci ci stava raggiungendo. Ma non era rimasto un cazzo da lanciare: una specie di copertina di libro senza pagine, in un lago di sangue. Ormai avevo visto e fatto qualsiasi cosa, e mi impressionai ben poco. Robi era preso tra due fuochi. E aveva pure perso una spada. «Me la sbrigo io qui, Ale», mi urlò. «Vai avanti e ti raggiungo!».
Lo vidi scomparire sommerso dal gruppo di cannibali. Io me la diedi a gambe e riparai nel distributore. Doveva esserci da qualche parte uno di quei mostri che andava ancora in giro con una katana conficcata da qualche parte.

Un tonfo mi fece battere la testa sul finestrino e mi richiamò nel mondo reale. Nella corsa verso il porto avevamo urtato una delle tante auto ferme in mezzo alla strada.
«Ehi ci sei, minchione?», mi urlò Silvio dal posto di guida. «Ti tenevo d’occhio, credevo stessi diventando uno di quelli».
«Ti diverti con l’autoscontro, pilota dei miei stivali?», gli risposi massaggiandomi la testa.
«È pieno di macchine abbandonate, qualcuna non riesco a evitarla. Stai bene?»
«Sì, un attimo di stanchezza», gli risposi. Mi avvicinai al posto di guida nel momento in cui un bagliore apparve a circa 200 metri davanti a noi.

(10 - continua) Continua a leggere

martedì 4 novembre 2008

Senza titolo (per ora) - 9


(Qui le puntate precedenti)

Amen. Bell’aiuto che ti ho dato, fratello, pensai. Con una tanica di benzina e una pisciata sulle tue cose avrei potuto finire il lavoro e rendere orgogliosi gli amici coi capelli rasati. Era la prima volta, in quella notte da incubo, che pensavo al significato delle mie azioni. Da quando ero fuggito di casa - e mi ero avventurato in giro con Robi mentre le cose precipitavano - avevo lasciato dietro di me una scia di sangue e cadaveri annientati: avevo decapitato, sprangato, colpito e ucciso almeno cinquanta zombie. Uno assai malandato lo avevo spinto per terra e l’avevo preso a calci in testa.

Avevo finito il lavoro col crick di una macchina che era stata abbandonata con tutte le portiere aperte: giù colpi, finché non aveva smesso di muoversi. Mai mi era saltato in testa che quella creatura su cui mi stavo accanendo fosse - o fosse stato - un essere umano. Robi, che era entrato in trip da samurai, si divertiva col set di spade giapponesi comprato dopo aver visto per tre volte di fila la prima parte di Kill Bill. Sembrava che non aspettasse altro che di maneggiare quelle cavolo di armi che teneva appese in camera. Usava la katana per infilzare e tenere a distanza la vittima, normalmente colpendola da dietro. Poi conficcava la spada corta - «Wakizashi, Ale: si chiama così», ripeteva fino allo sfinimento, lui che del Giappone, prima di quel film, conosceva solo Goldrake, Lupin III e quella storia delle mutandine commestibili – in un occhio del morto, dritta fino al cervello e all’inferno.

Si muoveva con eleganza, come se ripetesse quei gesti a memoria. Me lo immaginavo a casa sua che provava e riprovava a mulinare quegli affari. Forse faceva come quei cuochi che ti vendono i coltelli in televisione: acrobazie, zucche tagliate in volo, mele spaccate in quattro. Roba alla Ghemon, insomma.
Quella tattica però funzionava quando incontravamo qualche morto solitario, di quelli appena risorti e poco reattivi. Con gli “anziani”, quelli che si erano zombificati da più tempo, era inutile: se te ne arrivavano addosso quattro insieme, o diventavi la fottuta dea Kali con otto braccia e altrettanto spade a centrifuga multipla, o dovevi solo correre. Correre e sperare di non incappare in un altro gruppo di bastardi pronti a mangiarti. Correre alla ricerca di qualcosa che li distraesse da te.

Ma quello non capiva più un cazzo, tra spade e shuriken che lanciava inutilmente in giro credendosi Sasuke guerriero coraggioso. Occupati come eravamo nel seminare una cricchetta di ragazzini che voleva fare merenda con noi, finimmo in mezzo a un gruppo di puzzoni che stava pasteggiando a sangue e frattaglie davanti alla mensa universitaria. «Potevate almeno entrare e usare un tavolo», pensai mentre quelli ci guardavano quasi sorpresi da tanta fortuna: noi stronzi gli eravamo andati dritti in bocca.

(9- continua)
Continua a leggere

martedì 21 ottobre 2008

Senza titolo (per ora) - 8


(Qui le puntate precedenti)

Già, dovevo capire dove cazzo era finito quel tipo. Basta sogni.
«Hai qualcosa con cui potrei difendermi?», gli chiesi dopo essermi scosso.
«Ma sei scemo?», saltò in aria lui. «Cosa vuoi fare? Vuoi cercarlo? Se vuoi andare fuori, dillo: ti ci sbatto con un calcio in culo e ti lascio qui!».

In quel momento una manata sulla portina posteriore mi fece fare un salto. Il nostro amico era arrivato. Doveva essersi messo a radunare il club delle Giovani marmotte, i compagni delle elementari e la squadra di tiro alla fune dell’oratorio, visto quanto c’aveva messo.
Altre manate. Forti, urgenti. Poi grattava il vetro con le unghie. Voleva entrare. Sembrava un’animale. Quelle portine erano così zozze che non avrei capito che dall’altra parte c’era Pamela Anderson nuda neppure se avesse sbattuto le tette sui vetri e ce le avesse strusciate.

Io e Silvio ci guardammo in silenzio.
«Dallo specchietto non vedo nulla, non capisco chi è», mi sussurrò.
«È uno di loro, non ha detto una parola».
Mi abbassai quasi a quattro zampe e mossi verso il primo sedile dopo la portiera. Feci pianissimo, non volevo che qualche ombra mi tradisse. Con estrema attenzione tirai giù il finestrino del bus il tanto che bastava per sporgere la testa. Era già sotto di me, mi aveva fiutato. Mi guardava con la testa sbilenca, gli occhi morti e fissi. Avevo ragione: era lo straccione che chiedeva le monetine al semaforo. La gamba destra era completamente squarciata, quasi ridotta all’osso. Dovevano averlo preso subito, ma non ho idea di come non l’avessero ridotto a brandelli. Poveraccio, una vita di merda e neanche da morto riesce a trovare pace, pensai. Ma, cazzo, eravamo nei guai: se c’era uno zombi, gli altri non erano lontani.

Alzò le braccia rigidissime e con un ringhio cercò di afferrarmi. Le mani mi passarono ben lontane dalla faccia. Se avesse saltato, ce l’avrebbe fatta. Ma neanche Michael Jordan, da morto, ci avrebbe deliziato nella gara delle schiacciate.
Rimisi dentro la testa. «È il mendicante che batteva questi semafori», dissi a Silvio.
Inarcò le sopracciglia: «E gli sembra il momento di chiedere soldi?».
Vide la mia espressione attonita e scoppiò a ridere. «C’eri cascato, eh?». Inserì la marcia. «Ce ne andiamo prima che arrivino gli altri invitati alla festa».
«Lo lasciamo qui?».
«No: facciamolo salire, ma controlla che abbia il biglietto», mi rispose stizzito Silvio.

Fanculo, pensai. ‘Sto povero cristo non dava fastidio a nessuno. Leggeva i suoi giornaletti di Zagor e elemosinava qualche spicciolo dalle macchine ferme al semaforo. Quando era fortunato, riusciva anche a dormire senza che nessun bastardo andasse a prenderlo a sprangate o a incendiare la tenda dove viveva. Sarà stato così ubriaco che non avrà capito cosa gli è successo quando quei mostri del cazzo gli sono saltati addosso. In qualsiasi modo finisca questa storia, voglio lasciarlo qui o voglio fare qualcosa, per quanto sia crudele?

«Dammi solo un minuto, stronzo», dissi a Silvio. Mi sporsi col bastone che mi portavo dietro da quando ero nascosto nel distributore. Il mendicante alzò le braccia come se volesse acchiappare la pentolaccia. Strinsi la clava a due mani, mi sporsi il più possibile e gliela calai come meglio potei sul cranio. Sentii un rumore disgustoso e un rantolo. Lo zombie cadde riverso per terra, ma ancora si muoveva come se fosse percorso da una scossa elettrica.

«Passagli sopra. Sulla testa, se ci riesci. Poi andiamocene». È tutto quello che riuscii a dire a Silvio. Andai a sedermi a metà autobus, dalla parte opposta alle portine, e mi misi a scrutare il buio. Il bus fece retromarcia per una decina di metri, inquadrò il bersaglio coi fari e partì: un quasi impercettibile sobbalzò ci fece capire che le ruote avevano appena spappolato la testa di quel poveraccio. Poi via, verso via Paoli e il porto.

(8 - continua) Continua a leggere

martedì 14 ottobre 2008

Senza titolo (per ora) - 7


(Qui le puntate precedenti)

«Ferma», dissi a Silvio.
«L’ho visto anche io, è uno di loro», rispose. Ma sbuffò, rallentò e infine si fermo. «Muoviti».
Corsi verso il lunotto posteriore dell’autobus, Silvio si guardava intorno nervosamente. Se, per caso, da una delle strade che scendevano verso la piazza fosse sbucata una mandria di morti, la situazione si sarebbe complicata. Gettai uno sguardo dal vetro, scrutando nel buio. Tremavo leggermente, ma perché ero proprio sopra il motore che girava al minimo. Paura, io?
«Allora?», Silvio era nervoso.

Vedevo una sagoma che avanzava nell’oscurità ma non capivo cosa fosse. Aveva un passo abbastanza spedito, pensai che forse (ma molto forse) era uno shockato ancora vivo. Avrei dovuto controllare che fosse integro, prima di farlo salire. Niente morsi, niente stranezze.
«Fai luce qui dietro!», gridai.
«E come cazzo faccio? Scendo ad accenderti un falò? – rispose brusco – Cazzo, sbrigati».
«Schiaccia i freni, metti la retromarcia, accendi le luci posteriori, ho bisogno di luce!».

Fece come gli avevo detto. Le luci interne dell’autobus erano quasi spente, con la poca luce dei fanali posteriori riuscivo ad avere un pochino di visibilità esterna, giusto un paio di metri.
Ma non vedevo nessuno. Scrutai nell’oscurità per qualche secondo.
«Ma che diavolo stai facendo? Dobbiamo farci arrivare addosso tutti gli zombi della zona?», urlò Silvio da davanti.
«È sparito, che cavolo facciamo?».
«L’astronave è andata, buon samaritano dei miei stivali».

(Altro stacco stile Griffin. A bordo dell’astronave dei gorilla che vola verso il porto di Cagliari. Dall’alto la città è praticamente al buio. Il disco volante galleggia a meno di trenta metri dalla strada.

«Posso sparare a quello?».
«No, vostra altezza»
«E quel palazzo lo posso distruggere?».
«No, vostra altezza».
«E quella nave laggiù, la bombardiamo?».
«No, vostra altezza».
«Ma insomma, non posso fare nulla!»
«Esattamente, vostra altezza».
Il principe Kung si abbandonò sul sedile del disco volante, mugugnando nel suo linguaggio scimmiesco.
«Non ho ancora messo il muso fuori dalla nave!», protesto ancora.
«Non si sta perdendo nulla, vostra altezza – rispose il generale Grodd - Architettura per lo più trascurabile, indigeni curiosamente aggressivi e puzzolenti».
«Ma io sono il principe!».
«Lo sappiamo benissimo, vostra altezza. Voi siete il figlio primogenito del nostro glorioso re Kong, lo Sbucciatore di mondi».
«Voglio vedere il porto. Mi piacciono i porti», si lamentò Kung.
Grodd sospirò. Ticchettò un dito sulla spalla del pilota e gli disse: «Fai un giro largo del porto, soddisfiamo un desiderio del principe». Il pilota rispose col pollicione alzato e virò.
Kung battè le mani e i piedi eccitato. Poi, con un lampo malizioso negli occhi, allungò fulmineo una gamba e domandò: «Che succede se schiaccio questo?».
Sotto di loro una nave bianca e blu saltò in aria con un boato tremendo, centrata da un siluro laser.)

Mi parve di sentire davvero il botto in lontananza. Adesso scallano tutto, pensai. Sodoma e Gomorra in una pioggia di fuoco ed io che mi tramutavo in sale perché non avevo resistito alla sadica soddisfazione di vedere Cagliari distrutta.
«Pronto? C’è nessuno?», la voce di Silvio mi risvegliò.

(Continua - 7) Continua a leggere

martedì 7 ottobre 2008

Senza titolo - 6

(Continua da 1 - 2 - 3 - 4 - 5)
L’ignoto autista aggiunse una ripetuta sfanalata di abbaglianti e una bella accelerata. Il club del cubo di Rubik aveva ancora il suo bel daffare con la scala, mentre il disco volante si mosse leggermente, quasi a cercare di capire dove fossero finiti gli zombi. Dal finestrino del bus una manina mi fece cenno di avvicinarmi. Aggrappandomi al sostegno dell’insegna del bar riuscii a saltare giù senza rompermi niente e corsi verso l’autobus.

Successe tutto velocemente. Salii dalla porta centrale, che si richiuse nel momento stesso in cui il mezzo ripartiva a razzo verso l’uscita dallo spiazzo. Un gruppetto di zombi abbandonò il rompicapo e puntò verso di noi. Il disco volante sparò qualcosa contro l’edificio dietro il quale erano ancora radunati gran parte dei morti.

Esplose il bar e, pochi secondi dopo, prese fuoco e saltò per aria il serbatoio sotterraneo del distributore. Sembrava un botto da film americano, con fuoco e fiamme alti fino al cielo e una colonna di fumo nerissimo. Il caro, vecchio pullman arancione era già a distanza di sicurezza quando si scatenò l’apocalisse.
«Ale, brutto minchione, volevi giocare a nascondino con quei bruttoni?», mi apostrofò dal posto di guida una voce che conoscevo. E che odiavo.

Il mio salvatore, infatti, era noto all’universo mondo come “il signor so-tutto-io”. Io e Silvio eravamo stati compagni alle scuole medie e un paio di volte, per suggellare la grande amicizia che ci legava, eravamo rimasti in classe dopo la fine delle lezioni a lanciarci banchi e sedie a causa di qualche sgarro. Il bastardo una volta mi colpì alla coscia con una sediata e zoppicai per una settimana. Non essendo granché nelle scazzottate scolastiche  - ero più bravo a filarmela che a dare pugni – mi gustai i classici fallimenti che costellano la strada di un tredicenne: l’interrogazione andata male, il compito in classe col voto più basso del tuo, la più carina della classe che non lo calcolava neppure di striscio (io ero direttamente fuori classifica, categoria “scherzi della natura”). Soddisfazioni molto più miserabili di un bel cazzotto sul naso, lo confesso. Ora eravamo diventati compagni di avventura/sventura. Quasi quasi avrei preferito i morti.

«Guidi quest’affare come uno storpio», furono le mie prime parole. Così, per partire subito col piede giusto. In tutta risposta grugnì. Mi aspettavo che mi facesse scendere da un momento all’altro, possibilmente vicino a un bel gruppetto di cannibali cenciosi. Il disco volante dei gorilla ci passò sopra, velocissimo. Andava nella nostra stessa direzione, verso il porto. Sembrava di essere in giro la notte di Natale, ma senza luminarie e senza piacevole sensazione di pancia piena causa cenone. Era tutto spento: lampioni, insegne, case. 

Silvio andava bello spedito, attento ad evitare le macchine abbandonate in mezzo alla strada o diventate rifugio di qualche cadavere affamato. In tutto quel buio, le uniche luci accese erano quelle dei semafori: rosso-verde-giallo, rosso-verde-giallo, qualcuno arancione. Attraversammo veloci piazza San Benedetto e notai con la coda dell’occhio un tizio fermo a guardare il semaforo all’incrocio.

(Continua - 6)

Continua a leggere

martedì 30 settembre 2008

Senza titolo (per ora) - 5

(Continua da 1 - 2 - 3 - 4)

Non avevo molte alternative. Qualsiasi cosa avessero in testa gli scimmioni, non credo che contemplasse la fuga. Ma se avessi messo un piede fuori dal mio nascondiglio, quegli altri avrebbero abbandonato il problema del tonno in scatola per lanciarsi sulla bistecca al sangue.

Ma che cavolo, mi dissi. Non sono stato campione scolastico dei 200 metri? Sicuro, dieci anni e molti McDonald’s fa. E correvi contro uno sciancato, uno con le emorroidi, due gemelli napoletani ciccioni (che si erano qualificati minacciando gli altri concorrenti) e uno con le scarpe di cartone che si aprirono a 50 metri dal traguardo e lo fecero capitombolare via. La vittoria morale andò a lui: stava vincendo con 30 metri di vantaggio su di me, che ero tallonato da quello con le emorroidi. I ciccioni erano fuori gara: si erano fermati a picchiare lo sciancato perchè aveva risposto male a una minaccia.

Dovevo cercare di andarmene prima che ai gorilla saltasse in testa di proporre la loro versione del bombardamento di Apocalypse now. Mi infilai lo zaino, afferrai la mia clava da cavernicolo e con un calcio buttai giù la porta dell’ufficio dove mi ero rifugiato. Lanciai uno dei moncherini che mi erano piovuti addosso verso il gruppo di zombi. Il pezzo rimbalzò su una testa e tutti si immobilizzarono.
Dopo un attimo si voltarono verso di me. Tutti insieme, perfettamente sincronizzati. Mi sentii un po’ meno spavaldo. E mi resi conto che «correre, correre, correre» non era una strategia. Era una coglionata.

Come quelli mossero il primo passo verso di me, io feci una finta ubriacante di quelle che mi avevano reso “famoso” sui campi di basket – e gli zombi non abboccarono, esattamente come tutti i difensori delle squadre avversarie dell’epoca – e mi lanciai alla mia sinistra, lungo la parete dell’ufficio-bar-ristorante del distributore. La speranza era quella di trovare un modo per filarmela: una bicicletta, un motorino. Magari con le chiavi infilate dentro. Sennò un unicorno alato. Ci voleva un miracolo perché ad ogni passo che facevo mi rendevo conto della cazzata galattica che stavo combinando.

Me li sentivo dietro, quei loro occhi gelidi puntati sul collo. Non erano ovviamente in grado di raggiungermi, con quelle gambe rigide e il passo sbilenco. Ma l’avevo già visto altre volte, quella notte: loro non si stancavano e noi invece non potevamo correre per sempre. Ti fermavi a riprendere fiato e scoprivi che, efficaci come segugi, ce li avevi ancora dietro. E prima o poi cadevi o davvero non ce la facevi più e cominciava “Il pranzo è servito” ma senza Corrado o quella odiosa musichetta.

Con la coda dell’occhio vidi il disco volante prendere lentamente quota. Io girai l’angolo dell’edificio e corsi subito nel retro. Quasi inciampai in una scala di metallo posata per terra e senza pensarci su la acchiappai e la issai per salire sul basso tetto dell’ufficio. Forse era il mio miracolo. Mi arrampicai appena in tempo, perchè i morti sbucarono da due direzioni in contemporanea. I figli di puttana avevano tentato di accerchiarmi: un gruppetto aveva fatto il giro per chiudermi la strada.

Tentai di tirare su la scala, ma era pesante e quelli la afferrarono. Mollai tutto e gliela feci cadere addosso. Immaginai una telecamera nascosta e Piero Angela che sussurrava: «Ecco, ora vedremo il grado di manualità dei non morti. Posti davanti al problema della scala da raddrizzare, questi nostri parenti molto prossimi mostrano evidenti difficoltà». O così speravo io mentre gettavo uno sguardo a quel gruppo di disperati. Erano incasinati persi, grazie al cielo: un paio tenevano le due estremità dell’attrezzo ma gli altri fessi continuavano a infilarsi tra i pioli. Sembravano confusi, mi davano l’idea di qualcuno che si ritrova davanti a qualcosa che conosce ma non ricorda bene come si usa.

Non vi è andata bene oggi fratelli, tra scatolette di tonno e incredibili oggetti misteriosi. Tanto meglio, pensai, avevo qualche istante prezioso. Da usare non si sa come, visto che ero praticamente in trappola. Il rombo del motore del bus invece mi salutò.

(5 - continua)
Continua a leggere

martedì 23 settembre 2008

Senza titolo (per ora) - 4

L’improbabile equilibrio venne spezzato da quello che era il classico parto di uno sceneggiatore hollywoodiano a corto di idee: preceduto da una serie di tonfi sordi, un autobus irruppe sulla scena. Abbatteva i cadaveri che gli si paravano davanti come un ubriaco al volante avrebbe fatto coi cartelli stradali. Non vedevo chi c’era alla guida, ma il mezzo era uno di quei classici pullman arancioni che l’azienda di trasporti pubblici metteva sulle linee più trafficate. Erano così scalcagnati che ogni volta che prendevano una buca nell’asfalto, capivi come si sentivano a Baghdad quando incappavano in una mina. Una volta, durante uno dei frequenti sobbalzi gentilmente offerti dalle groviera che chiamano strade, battei la testa sul tetto del bus tanto forte che mia madre, vedendo il bernoccolo, voleva cacciarmi di casa convinta che mi fossi finalmente rivelato come figlio del diavolo (e l’aveva sempre sospettato).

Comunque perfino un cretino come me, che non avevo la patente, poteva intuire che l’autista del bus fosse poco pratico nella guida di un mezzo così grande. Alla prima sterzata, per evitare il disco volante, per poco non finì a tutta birra sulle pompe di benzina. Alla controsterzata, mancò tanto così che non finisse ruote all’aria e si trasformasse in un succulento piatto di carne in scatola per gli zombi superstiti. I gorilla approfittarono della confusione per rientrare nella navetta e chiudere il portellone di carico. Non sapevo se commuovermi perché, in tutto quel merdaio, io e gli scimmioni spaziali avevamo convenuto che la cosa migliore fosse nascondersi in attesa di tempi migliori.

I morti dimenticarono i gorilla e si incamminarono verso l’autobus che continuava a sgommare nello spiazzo del distributore come un’automobilina sulla pista elettrica. I casi erano due: o al volante c’era un loro amichetto ex autista che faceva appello ai suoi neuroni fritti per ricordare come guidava oppure c’era un cretino a cui era andato in pappa il cervello e aveva deciso di fare Grand Theft Auto dal vivo prima di schiattare. La prospettiva di una comitiva zombesca che si muoveva in autobus mi faceva sorridere. Cosa avrebbero cantato durante il viaggio? Quel mazzolin di fiori / che sta sulla mia tomba?

Ad ogni manovra diventava sempre più chiaro che neanche uno zombi coi riflessi di un cervo impagliato avrebbe potuto guidare così male. Era solo questione di tempo perché, tra una sterzata di qua e una ripartenza a fil di pensilina di là, succedesse quello che pensavo.

Ecco, appunto: il motore dell’autobus, che rantolava come mia nonna con l’angina, si spense. Come sempre, senza fretta ma inesorabili, i morti che ancora deambulavano raggiunsero il bus e lo circondarono. I vetri erano troppo sporchi e c’era troppa poca luce perché capissi chi stava al volante. I futuri gitanti colpivano con manate insistenti ma impotenti le fiancate del mezzo: avevano il tonno in scatola ma nessun modo per aprire la lattina. Anche uno scimpanzè intontito da dieci anni di zoo e cibo lanciato dai turisti avrebbe escogitato un sistema per mettere le mani su quella bella carne viva e calda, ma col cervello infiltrato dagli scarafaggi non potevi architettare granché. Nel frattempo, il disco volante dei gorilla si era alzato di qualche metro da terra e galleggiava nell’aria in silenzio.
Avevo una bruttissima sensazione e iniziai a sentirmi come un topo in trappola.

(4 - continua - qui la prima, la seconda e la terza puntata)
Continua a leggere

martedì 16 settembre 2008

Senza titolo (per ora) - 3

La verità è che anche gli zombi sembravano indecisi sul da farsi. Chissà che cazzo gli passava per quelle teste morte, ma di sicuro i gorilla spaziali non erano contemplati dalle loro definizioni di cibo.

Mentre continuava quello strano balletto diretto dai fucili, osservai meglio la scena. Gli scimmioni sembravano usciti da un film di fantascienza degli anni 60, di quelli sfigati dove si vedeva da lontano che c’era uno che si dimenava dentro la pelliccia. La moda sul pianeta Banana non doveva essere uno dei settori di punta. Io non mi sarei sentito molto togo con quelle mantelline viola e gli strani cappelli metallici a punta. Ma ridicoli o no, col cavolo che avrei riso in faccia a un bestione altro tre metri armato con un fucilone da Guerre Stellari solo perché era vestito in modo assurdo.

Per i morti viventi l’abbigliamento faceva il paio con l’encefalogramma piatto. Sembrava di guardare la foto di una festa di carnevale in stato di putrefazione. C’era un po’ di tutto: un rigido poliziotto senza un braccio, una vecchia con la parrucca messa male, uno che sembrava scappato dall’ospedale, un operaio con la testa mezza staccata. Altri erano ricoperti solo da brandelli indecifrabili di vestito. Quelli messi peggio facevano davvero schifo, perdevano qualche pezzo ad ogni movimento. Per terra si intuiva il movimento di centinaia di cose molto piccole e molto veloci: quella carne marcia gratis era una pacchia per gli scarafaggi. E la festa sembrava appena iniziata.

Che figura di merda, pensavo. Arrivano gli invasori spaziali e trovano le blatte padrone delle strade. I cugini di Copito de nieve ci avevano comunque salvato il culo. Poi forse ci avrebbero usato come schiavi per trasportare i caschi di banane o farsi sventagliare via le mosche, ma la situazione era già palesemente fuori controllo quando la loro navicella era apparsa nel cielo.

Dalla sera prima, infatti, eravamo diventati tutti comparse di un film di Romero, barricati in casa perché gli obitori degli ospedali sputavano fuori cadaveri che si supponeva aspirassero a fare le inanimate comparse di CSI. Invece se ne andavano a spasso a mordere, e non so chi fosse più sfigato: se quelli che diventavano bocconcini freschi di cibo per zombi o gli altri che venivano morsi ma riuscivano a scappare.

Erano comunque fottuti: quella roba era contagiosa e, nel giro di un paio d’ore, si univano all’allegra combriccola di morti puzzoni che vagavano per le strade. Una qualche memoria della vita passata dovevano ancora averla. Immaginati che sorpresa: ti piomba a casa la nonna morta da vent’anni e invece di mettersi a fare le frittelle che adoravi da bambino, cerca di mangiarti. Era successo a me, ed ero stato fortunato a filarmela. Correvo e mi ripetevo: ma di cosa son fatte le tombe oggigiorno?

Nessuno sapeva che fine avesse fatto quell'idiota del sindaco. Me lo vedevo che prendeva il sole ai Caraibi, coi capelli tinti, i baffoni alla Village People e l’aria di uno che fa finta di niente. Che poi quella ce l'aveva normalmente: lo sapevano tutti che era un cretino calzato, vestito e impomatato. Polizia e carabinieri riuscivano a stento a difendere poche zone della città, stranamente quelle intorno alle loro caserme. Ma non è che potessimo pretendere miracoli: nessuno era attrezzato per quello che stava succedendo e le forze dell’ordine, in attesa di capire se la cosa era curabile, tentavano di acchiappare quanti più morti possibile senza fare troppi danni. Li chiudevano da qualche parte nella speranza di guarirli.

Secondo me non avevano capito un cazzo. Ora che sembravano pure in grado di sintonizzarsi tra loro e muoversi come una cosa sola, c’era solo da aspettarsi il peggio. E poi cosa volevi curare, la morte? Hanno la carne che si stacca dalle ossa ad ogni passo e puzzano come un maiale che si è rotolato per 400 anni nelle fogne di Calcutta. L’unica cura era un bel colpo in testa, un po’ di benzina per smaltire i resti e, scusa nonna, facciamo finta non sia successo nulla.

(3 - continua - qui la prima e la seconda puntata)
Continua a leggere

martedì 9 settembre 2008

Senza titolo (per ora) - 2


Un’esplosione fortissima mi riportò indietro dalle mie seghe mentali. Un’auto parcheggiata appena fuori dal distributore era saltata in aria colpita da una laserata. Il gruppo di zombi che ciondolavano là vicino volò in mille pezzi come una costruzione Lego quando si schianta a terra. Dalla finestra mi piombarono addosso un bel po’ di brandelli fumanti di cadavere. Puzzavano in modo terribile, dopo pochi secondi nell’ufficio l’aria diventò irrespirabile. Mi sforzai per non vomitare. Almeno questa merda coprirà il mio odore, mi consolai.

A poche decine di metri dalla mia porta, un gruppo di sei gorilla difendeva la posizione. Davano le spalle al piccolo disco volante luccicante col quale erano atterrati ed erano circondati da almeno cinquanta morti. Non gli stavano addosso, rimanevano a distanza di sicurezza. La cosa terrorizzante è che si muovevano come un banco di pesci, sembravano un’unica intelligenza elementare e ondeggiavano tutti insieme non appena le scimmie puntavano i fucili. Lo scontro era in fase di stallo dopo la prima, furibonda scarica di colpi. Gli zombi disintegrati venivano rimpiazzati da altri che, con passo da marionetta, si univano a gruppetti da ogni parte.

Non capisco nulla di psicologia dei gorilla, avevo giusto guardato qualche documentario di Piero Angela e quel film sulla scienziata che viveva nella giungla. Ma era chiaro che i bingo bongo non si aspettassero il comitato di benvenuto. L’avevano smessa di sparare come cowboy ubriachi e si guardavano intorno circospetti. Qualcosa mi diceva che quei fucili non avevano le pallottole infinite come nei videogiochi. Ma cosa erano venuti a fare? E perché non se la davano a gambe sulla nave spaziale?, mi domandai.

(Stacco repentino, come in una puntata dei Griffin.
Didascalia: “Poco tempo fa in una galassia lontana lontana”.
Il re Kong guarda la mappa del pianeta Terra. È stesa su un tavolo intorno al quale saltellano a quattro zampe i pezzi grossi delle forze militari. Il gorilla capo si esprime con grandi e pensosi gesti. Traduciamo dal gorillese: «Dunque, rifacciamo i conti», dice.

Di volta in volta prende in mano modellini di dischi volanti e di altre astronavi a forma di banana e li posiziona sul planisfero terreste. «Queste divisioni vanno qui in America, sono sufficienti per prendere il controllo delle città più importanti». Gli altri annuiscono. L’operazione va avanti per alcuni minuti, mentre il sovrano ricapitola la distribuzione dell’esercito d’invasione. Quando il Risiko scimmiesco è finito e tutte le miniature sono disposte sulla cartina, uno dei generali prende la parola con aria imbarazzata.

«E che facciamo col principe Kung, signore? Lo mandiamo in prima linea?», chiede.
«Per la pelliccia di Donkey Kong, me l’ero dimenticato!», esclama il sovrano. «Non ci sarà modo di tenerla a casa, quella testa calda».
«Inventiamoci una missione per lui. Facciamogli credere che gli facciamo fare qualcosa di importantissimo mentre lo stiamo semplicemente tenendo al sicuro», interviene un gorilla anziano, con il petto coperto da una serie impressionante di medaglie.

«E dove lo mandiamo? Ci vuole un posto dove non possa farsi male neppure per sbaglio», ribatte re Kong.
Il vecchio generale prende un pesante dossier e inizia a sfogliarlo velocemente. Trova quello che cercava, ridacchia con un suono gutturale e dice agli altri: «Ecco! Lo mandiamo qui: Ca-glia-ri. Troveremo una scusa per trattenerlo là».
Re Kong si rasserena: «Ottimo, generale Grodd! Così Kung rimarrà fuori dai guai».

Le ultime parole famose, pensai, mentre quella fantasticheria sfumava dalla mia testa.)

(2-continua - qui la prima puntata)

Continua a leggere

martedì 2 settembre 2008

Senza titolo (per ora) - 1


Gorilla marziani contro morti viventi. Dio, ero finito in una bella situazione del cazzo, un vero film di serie Z. Superava di gran lunga quella volta che in un teatrino parrocchiale avevo visto il Rocky Horror Show fatto con i vestiti di carta, le canzoni suonate da un gruppo peruviano e le parti sconvenienti censurate. E posso assicurare che quella era stata davvero una merda all’ipercubo.

Soppesavo tra le mani una specie di pesantissima spranga di legno che avevo trovato sotto un tavolo. Se avessi avuto il vestito di pelliccia sarei sembrato un perfetto cavernicolo dei fumetti. Valutavo le mie possibilità contro i cannoni laser dei gorilla: un colpo ed eri fumo e polverina. Se per magia avessi evitato quei fuochi d’artificio, per dribblare gli zombie sarei dovuto diventare il Maradona di Argentina-Inghilterra del mundial ’86. Si muovevano come salsicce imbalsamate, ma se sentivano l’odore di carne viva diventavano più frenetici di un piranha a digiuno.

Pensavo: coglione, basta una bella botta in testa e te ne liberi. Poi ripensavo: dillo a Robi, che si era messo a fare Conan il barbaro ed é finito circondato e fatto a pezzi in 5 minuti. «Una testa non è un melone maturo», gli avevo ripetuto. Non mi aveva voluto ascoltare e adesso riempiva le pance di quelle cose puzzolenti. O almeno, di quelli che una pancia ce l’avevano e non esibivano un comodo buco da dove colava via tutto.
Lo stronzo aveva fatto di testa sua e mi aveva lasciato solo, barricato nell’ufficio di una pompa di benzina. Fuori le scimmie venute dallo spazio sparavano a più non posso contro il branco di salsicce affamate. I raggi brillavano come fulmini nel buio di quella notte assurda e ronzavano come calabroni da tre chili. Quella sì che era un’idea intelligente: sventagliare laser a due metri da un distributore di benzina con dodici pompe e un serbatoio sotterraneo grande quanto mezzo isolato. Poi vai a spiegare perché sei tornato sul tuo pianeta col culo bruciato. Ma cosa pretendevo dai Magilla Gorilla della galassia?

La colpa di tutto quel casino non era neanche loro. Avevano solo scelto la sera sbagliata per venire a fare una passeggiata nei dintorni. Che poi non so come stesse andando dalle altre parti. Avevo perso il cellulare, la tv non funzionava più, alla radio davano solo vecchi successi di Rita Pavone e Internet era kaputt. Mi sembravano chiari segnali che la civiltà era sul punto di andare a puttane. Possibile che a New York ci fosse già il grande re scimmione seduto su un trono di ossa umane che sceglieva le donne più belle con cui passare la notte, mentre la popolazione veniva trascinata in catene sui dischi volanti.
(Leggo troppi fumetti.)

A Cagliari, per quel poco che riuscivo a vedere io, la conquista del pianeta era ancora in alto mare.
Questo sì che era un dettaglio mica da poco in quel delirio: la battaglia più allucinante della storia si combatteva nella mia città, seconda stella a destra e dritto fino in Culonia. Un posto dove la cosa più eccitante mai successa era la vittoria di un campionato di calcio nel 1970: ancora se ne parlava come se da allora il mondo si fosse fermato per decreto divino. Io c’avevo sempre vissuto ma sognavo di andarmene. Mi ero stufato di essere preso per il culo dai fighettini coi soldi, di non vedere una ragazza neppure col binocolo perché non ero uno dei fighetti suddetti e di non sapere cosa aspettarmi dal futuro se non strisciavo a baciare la sudatissima cravatta di qualche consigliere regionale.

Visto però come giravano le cose, sarebbe stato un grande successo arrivare a 21 anni senza essere diventato lo spuntino di una mummia rinsecchita con i denti marci. Oppure chissà, avrei spento le candeline negli scantinati di qualche arena galattica, in attesa di combattere per il divertimento di scimmie extraterrestri. È che proprio non mi ci vedevo a fare il Russell Crowe gladiatore dello spazio, con una folla pelosa che mi applaudiva con mani e piedi e acclamava «Sardus sardus»: zero fisico, zero faccia da balente. Che poi, chissà in che lingua parlavano quei gorilla: di sicuro non il latino.

(1-continua)
Continua a leggere