martedì 18 novembre 2008

Senza titolo (per ora) - 11


(Qui le puntate precedenti)

«Ma che cazz..», borbottò Silvio. Frenò e spense i fari. A metà del lungo rettilineo che tagliava il centro città e arrivava al porto c’era il comando dei carabinieri, un palazzone di architettura fascistoide, tutto fregi e finte colonne, sormontato da orribili statue di pietra in pose plastiche e ridicole. Forse l’autore di quelle opere epocali aveva anche le foto nel suo studio e, di tanto in tanto, le guardava con orgoglio o le faceva vedere agli amici artisti. Qualcuno avrebbe dovuto dirgli l’amara verità: facevano cagare. Avrei importato a mie spese un gruppetto di iracheni per tirarle giù come avevano fatto con le statue di Saddam.

Comunque, ogni volta che passavo là davanti c’era sempre un carabiniere tutto leccato di guardia sulla porta. La sua principale occupazione era quella di sminciare le ragazzine. Un giorno mi fermai dall’altra parte della strada e lo tenni d’occhio per un’oretta (non avevo un cazzo da fare, come al solito). Gli passarono davanti trenta sciacquette di età apparente tra i quindici e i venticinque anni, molte “vestite” per modo di dire, con perizomi a vista e tacchi che sembravano trampoli da circo. Ma lui non se ne perse una. Anzi, con qualcuna riuscì pure ad attaccare bottone, confermando la mia teoria che molte donne sono come le gazze. Per attirarle basta qualcosa di luccicante, come i bottoni di una divisa o un’auto figa o gli occhiali da sole a specchio.

Il palazzone fascista era diventato una specie di fortino. Le finestre ai piani bassi erano state sbarrate, come anche le porte d’ingresso. L’amico, se era ancora tra noi, non doveva avere tempo per guardare culetti ora, a meno che non apprezzasse le chiappe rinsecchite che vagavano per strada ultimamente. Di certo doveva essere occupato, perché c’era un bel conflitto a fuoco in corso: da tutte le aperture disponibili, quelli che stavano nel palazzo sparavano a raffiche contro il disco volante, fermo a mezz’aria davanti al palazzo. Pistole, mitra, fucili: sembrava Space Invaders dal vivo. I gorilla avevano già colpito la facciata: un principio d’incendio e un bel buco stavano là a testimoniarlo.

Meglio stare fermi e a distanza di sicurezza, convenimmo io e Silvio. Non eravamo gente da obbedire tacendo e tacendo morire: meglio fottersene tacendo e tacendo sopravvivere. La potenza di fuoco dei carabinieri era impressionante e sul guscio del disco volante brillavano le scintille dei proiettili che rimbalzavano via.
Silvio mi indicò il buco fumante nel palazzo e chiese: «Ci saranno morti?».
«Ma che cazzo vuoi che me ne freghi – sbottai – Quegli asini in divisa mi stanno sulle palle, che li facciano saltare tutti in aria».
«Sei il solito cretino, Ale. Guarda meglio». Prese un binocolo dal suo zaino e me passò. Misi a fuoco e puntai sulla facciata sventrata. Nonostante il buio, riuscivo ad avere una visuale nitida.
«Cosa vedi?», mi domandò Silvio col suo tono supponente.

(11 - continua)

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