martedì 4 novembre 2008

Senza titolo (per ora) - 9


(Qui le puntate precedenti)

Amen. Bell’aiuto che ti ho dato, fratello, pensai. Con una tanica di benzina e una pisciata sulle tue cose avrei potuto finire il lavoro e rendere orgogliosi gli amici coi capelli rasati. Era la prima volta, in quella notte da incubo, che pensavo al significato delle mie azioni. Da quando ero fuggito di casa - e mi ero avventurato in giro con Robi mentre le cose precipitavano - avevo lasciato dietro di me una scia di sangue e cadaveri annientati: avevo decapitato, sprangato, colpito e ucciso almeno cinquanta zombie. Uno assai malandato lo avevo spinto per terra e l’avevo preso a calci in testa.

Avevo finito il lavoro col crick di una macchina che era stata abbandonata con tutte le portiere aperte: giù colpi, finché non aveva smesso di muoversi. Mai mi era saltato in testa che quella creatura su cui mi stavo accanendo fosse - o fosse stato - un essere umano. Robi, che era entrato in trip da samurai, si divertiva col set di spade giapponesi comprato dopo aver visto per tre volte di fila la prima parte di Kill Bill. Sembrava che non aspettasse altro che di maneggiare quelle cavolo di armi che teneva appese in camera. Usava la katana per infilzare e tenere a distanza la vittima, normalmente colpendola da dietro. Poi conficcava la spada corta - «Wakizashi, Ale: si chiama così», ripeteva fino allo sfinimento, lui che del Giappone, prima di quel film, conosceva solo Goldrake, Lupin III e quella storia delle mutandine commestibili – in un occhio del morto, dritta fino al cervello e all’inferno.

Si muoveva con eleganza, come se ripetesse quei gesti a memoria. Me lo immaginavo a casa sua che provava e riprovava a mulinare quegli affari. Forse faceva come quei cuochi che ti vendono i coltelli in televisione: acrobazie, zucche tagliate in volo, mele spaccate in quattro. Roba alla Ghemon, insomma.
Quella tattica però funzionava quando incontravamo qualche morto solitario, di quelli appena risorti e poco reattivi. Con gli “anziani”, quelli che si erano zombificati da più tempo, era inutile: se te ne arrivavano addosso quattro insieme, o diventavi la fottuta dea Kali con otto braccia e altrettanto spade a centrifuga multipla, o dovevi solo correre. Correre e sperare di non incappare in un altro gruppo di bastardi pronti a mangiarti. Correre alla ricerca di qualcosa che li distraesse da te.

Ma quello non capiva più un cazzo, tra spade e shuriken che lanciava inutilmente in giro credendosi Sasuke guerriero coraggioso. Occupati come eravamo nel seminare una cricchetta di ragazzini che voleva fare merenda con noi, finimmo in mezzo a un gruppo di puzzoni che stava pasteggiando a sangue e frattaglie davanti alla mensa universitaria. «Potevate almeno entrare e usare un tavolo», pensai mentre quelli ci guardavano quasi sorpresi da tanta fortuna: noi stronzi gli eravamo andati dritti in bocca.

(9- continua)

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