martedì 25 novembre 2008

Senza titolo (per ora) - 12


(Qui le puntate precedenti)

«C’è un po’ di fuoco e parecchio fumo – iniziai –E poi… Poi, sì, vedo un braccio penzolante fuori dalle macerie. Forse c’è un cadavere, cioè almeno uno di sicuro», gli riferii.
Il mio compagno di sventura assunse una faccia pensosa. «Appunto. Guarda se si muove», disse.
Un’altra esplosione fece sobbalzare il nostro bus. I gorilla avevano colpito ancora. I resti della finestra, mattoni e calcinacci precipitarono sulla strada. Tornai a puntare la prima finestra col binocolo.

«Non c’è più! Non vedo più il braccio!», esclamai. Ci scambiammo uno sguardo.
«Che dici? Mentre sono sotto attacco avranno trovato il tempo di recuperare un compagno morto? – commentò Silvio – Oppure non sono più al sicuro là dentro?».
«Quante persone ci saranno?»
«Non ne ho idea». Si accarezzò il mento. «Penso qualche centinaio. Ma quanto credi che ci voglia per diffondere il contagio, soprattutto se quelli armati sono occupati?»
«Credo che bastino quattro o cinque morti a spasso per dieci minuti: se poi beccano una donna o un bambino sono fottuti», dissi.

Avevo visto gente sopraffatta perché non aveva la forza di uccidere chi l’aveva attaccata. Io stesso e Robi eravamo fuggiti davanti alla mezza classe elementare: spaccare la testa a un moccioso era decisamente troppo, anche nella barbarie in cui eravamo precipitati. Se, nella sede del comando, c’erano tutte famiglie che si conoscevano tra loro, un paio di contagiati sarebbero stati sufficienti a distruggerli. Mentre tu ripetevi «Mamma mamma, ma non mi riconosci?», quella ti aveva già staccato un braccio. Poi maresciallo, ti avrei voluto vedere a sparare in testa a tua moglie e ai tuoi figli piccoli che venivano a farti a pezzi. La famiglia a lungo andare ti fotte, l’ho sempre pensato.

«Mi hanno detto che ‘sti imbecilli in divisa tengono rinchiusi un bel po’ di morti da qualche parte – dissi ancora – Pensano di curarli». Silvio batté le mani in un gesto di incredulità e poi si accasciò sul volante borbottando parolacce. Io mi ero rotto i coglioni dello sparatutto spaziale e mi feci un giro di perlustrazione lungo i finestrini del bus. Non c’era un’anima in giro, viva o morta che fosse. Ma non sarei sceso da quell’autobus neppure se avessi visto Berlusconi infilato in un sacco di boxe a testa in giù. Occasione irripetibile, ma mi sarei risparmiato i due cazzotti che si meritava e l’avrei lasciato alle amorevoli cure degli straccioni dell’aldilà, che erano di sicuro nascosti da qualche parte. Ma forse l’avrebbero schifato pure loro, quel merda: troppo cerone, capelli finti, troppa robaccia nel sangue. Meglio un topo di fogna.

«In queste case qui, dici che c’è ancora qualcuno?», chiesi a Silvio osservando i palazzi circostanti.
«Sicuro – mi disse tirando su la testa – Stanno tutti ai piani alti, gli zombi hanno problemi a fare le scale: quando ho rubato l’autobus ne ho visto un gruppetto sbattuti fuori a calci in culo da una palazzina in viale Ciusa».
«Porca puttana, ma perché non me ne sono rimasto a casa allora?».
«Ma i tuoi genitori dove sono?», domandò l’autista. «Non mi hai detto un cazzo».
«Li hanno sfollati prima che arrivassero i marziani – dissi – Erano alla riunione del gruppo della parrocchia, mia madre mi ha chiamato per avvertirmi che stava succedendo qualcosa e li portavano via. Mi ha detto: «Rimani chiuso a casa, appena posso ci facciamo vivi». Ma non ho ancora avuto notizie». Mostrai il cellulare: «D’altra parte non sta funzionando nulla… E i tuoi?».
Alzata di spalle di Silvio. «Credo stiano bene, conoscendo mio padre devono essersi organizzati una specie di fortino nel palazzo. Io ho trovato questo coso aperto e in moto davanti a casa e non ho resistito all’idea di farmi un giro».

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