martedì 21 ottobre 2008

Senza titolo (per ora) - 8


(Qui le puntate precedenti)

Già, dovevo capire dove cazzo era finito quel tipo. Basta sogni.
«Hai qualcosa con cui potrei difendermi?», gli chiesi dopo essermi scosso.
«Ma sei scemo?», saltò in aria lui. «Cosa vuoi fare? Vuoi cercarlo? Se vuoi andare fuori, dillo: ti ci sbatto con un calcio in culo e ti lascio qui!».

In quel momento una manata sulla portina posteriore mi fece fare un salto. Il nostro amico era arrivato. Doveva essersi messo a radunare il club delle Giovani marmotte, i compagni delle elementari e la squadra di tiro alla fune dell’oratorio, visto quanto c’aveva messo.
Altre manate. Forti, urgenti. Poi grattava il vetro con le unghie. Voleva entrare. Sembrava un’animale. Quelle portine erano così zozze che non avrei capito che dall’altra parte c’era Pamela Anderson nuda neppure se avesse sbattuto le tette sui vetri e ce le avesse strusciate.

Io e Silvio ci guardammo in silenzio.
«Dallo specchietto non vedo nulla, non capisco chi è», mi sussurrò.
«È uno di loro, non ha detto una parola».
Mi abbassai quasi a quattro zampe e mossi verso il primo sedile dopo la portiera. Feci pianissimo, non volevo che qualche ombra mi tradisse. Con estrema attenzione tirai giù il finestrino del bus il tanto che bastava per sporgere la testa. Era già sotto di me, mi aveva fiutato. Mi guardava con la testa sbilenca, gli occhi morti e fissi. Avevo ragione: era lo straccione che chiedeva le monetine al semaforo. La gamba destra era completamente squarciata, quasi ridotta all’osso. Dovevano averlo preso subito, ma non ho idea di come non l’avessero ridotto a brandelli. Poveraccio, una vita di merda e neanche da morto riesce a trovare pace, pensai. Ma, cazzo, eravamo nei guai: se c’era uno zombi, gli altri non erano lontani.

Alzò le braccia rigidissime e con un ringhio cercò di afferrarmi. Le mani mi passarono ben lontane dalla faccia. Se avesse saltato, ce l’avrebbe fatta. Ma neanche Michael Jordan, da morto, ci avrebbe deliziato nella gara delle schiacciate.
Rimisi dentro la testa. «È il mendicante che batteva questi semafori», dissi a Silvio.
Inarcò le sopracciglia: «E gli sembra il momento di chiedere soldi?».
Vide la mia espressione attonita e scoppiò a ridere. «C’eri cascato, eh?». Inserì la marcia. «Ce ne andiamo prima che arrivino gli altri invitati alla festa».
«Lo lasciamo qui?».
«No: facciamolo salire, ma controlla che abbia il biglietto», mi rispose stizzito Silvio.

Fanculo, pensai. ‘Sto povero cristo non dava fastidio a nessuno. Leggeva i suoi giornaletti di Zagor e elemosinava qualche spicciolo dalle macchine ferme al semaforo. Quando era fortunato, riusciva anche a dormire senza che nessun bastardo andasse a prenderlo a sprangate o a incendiare la tenda dove viveva. Sarà stato così ubriaco che non avrà capito cosa gli è successo quando quei mostri del cazzo gli sono saltati addosso. In qualsiasi modo finisca questa storia, voglio lasciarlo qui o voglio fare qualcosa, per quanto sia crudele?

«Dammi solo un minuto, stronzo», dissi a Silvio. Mi sporsi col bastone che mi portavo dietro da quando ero nascosto nel distributore. Il mendicante alzò le braccia come se volesse acchiappare la pentolaccia. Strinsi la clava a due mani, mi sporsi il più possibile e gliela calai come meglio potei sul cranio. Sentii un rumore disgustoso e un rantolo. Lo zombie cadde riverso per terra, ma ancora si muoveva come se fosse percorso da una scossa elettrica.

«Passagli sopra. Sulla testa, se ci riesci. Poi andiamocene». È tutto quello che riuscii a dire a Silvio. Andai a sedermi a metà autobus, dalla parte opposta alle portine, e mi misi a scrutare il buio. Il bus fece retromarcia per una decina di metri, inquadrò il bersaglio coi fari e partì: un quasi impercettibile sobbalzò ci fece capire che le ruote avevano appena spappolato la testa di quel poveraccio. Poi via, verso via Paoli e il porto.

(8 - continua)

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