lunedì 22 settembre 2008

Filipino rock


Qualche giorno fa ascoltavo i Journey e pensavo ad Arnel Pineda.
Eh? Journey? Pineda? E chi cacchio sono?
Andiamo con ordine, incolte moltitudini. Intanto, per darvi un indizio, pensate a come vi sentireste se un giorno vi trovaste a cantare col vostro gruppo preferito, davanti a migliaia di persone. Sarebbe tutto bellissimo?

I Journey sono un autentico mito dell'arena rock americano, esplosi all'inizio degli anni 80. Ottimi musicisti (un paio venivano dal gruppo di Carlos Santana), fecero il botto con una serie di album dal grande sapore radiofonico: melodici, accattivanti, con qualche schitarrata e le classiche ballatone da cucco.
L'ingrediente segreto dei Journey - forse uno dei primi gruppi musicali a diventare protagonisti di un videogame: una specie di orrido flipper anni 80 per l'Atari 2600 - era però la voce di Steve Perry, tanto piccoletto di statura quanto gigantesco dietro il microfono. Sicuramente lo avete visto: era una delle voci più suggestive, insieme a Springsteen, in quel terribile guazzabuglio di "We are the world" (il nanetto con l'orribile capigliatura che canta dopo Kenny Loggins, all'incirca al minuto 2.30).

Come per tutti i gruppi-simbolo di una stagione musicale, anche i Journey intrapresero presto il viale del tramonto: poco dopo la metà degli anni Ottanta andarono ciascuno per conto proprio. Neal Schon e Jonathan Cain (rispettivamente chitarra e tastiere) vissero un'altro effimero momento di gloria con i Bad English del mitico John Waite. Nel 1995 - al finire del riflusso grunge e con le prime reunion all'orizzonte - tornarono alla carica, ma fu un fuoco di paglia: il nuovo disco andò benino, ma Perry accusò seri problemi di salute e non partì in tour col gruppo.

Da quel momento Steve Perry praticamente è sparito dalla scena musicale. Recentemente si è detto che vorrebbe riprendere una carriera solista, ma poche settimane fa l'ex manager dei Journey commentò la notizia dicendo qualcosa del tipo: se non canti per dieci anni, la voce l'hai persa. Ma questa è un'altra storia.
I Journey, dopo l'abbandono del loro marchio di fabbrica, intrapresero la china discendente: negli ultimi dieci anni, con diversi cantanti, sfornarono album poco convincenti e lontani dalla magia dei giorni d'oro.

E qui arriviamo al nostro Arnel. Filippino, nato nel 1967, ha alle spalle una intensissima carriera musicale tra Filippine e Hong Kong: dischi solisti, una raffica di gruppi e dischi a partire dal 1982. Nel 2007 su You Tube finirono diversi video di Arnel che cantava cover dei Journey, degli Aerosmith. Pochi mesi dopo Neal Schon, che si ritrovava senza cantante dopo l'abbandono di Jeff Scott Soto, vide questi video e contattò l'amico di Pineda che aveva caricato i filmati.

Scrisse ad Arnel per proporgli un'audizione ma il nostro, come succede di solito, pensò che la mail fosse uno scherzo. L'amico faticò molto per convincerlo a rispondere: neanche dieci minuti dopo, Schon telefonò a Pineda. Nel febbraio 2008, la favola iniziò davvero ed Arnel si ritrovò sul palco coi Journey in Cile, davanti a 20mila persone. "Per un tipo come me è surreale - racconta a Rolling Stone Usa - Una specie di miracolo".

La sua voce, incredibilmente simile a quella di Steve Perry, rivitalizzò il gruppo. ("Vederlo cantare è qualcosa di soprannaturale: siamo finiti in una macchina del tempo", racconta Cain).Il nuovo disco - "Revelation", un doppio che, con mossa abilmente astuta, mette insieme un cd coi classici del gruppo ricantati, un disco di canzoni nuove e viene venduto a prezzo speciale nella colossale catena di market Wal Mart - ritrae il gruppo in un momento di grazia. Esordisce al numero 5 della classifica americana a giugno e ha finora venduto 441mila copie. I Journey partono per una lunga tournee americana nelle arene. Un'autentica resurrezione: una media di 13mila spettatori a concerto, sesto tour più redditizio dell'estate 2008.

Ma tutte le favole hanno un risvolto amaro. Arnel soffre subito con il meccanismo implacabile dello show business americano. Così racconta a Rolling Stone: "È molto triste - dice - Ci sono giorni in cui crollo e piango. Questo è un lavoro che sto facendo per la mia famiglia: è l'unica consolazione che trovo". La vita on the road è "tutta bus, palco e microfono": "Non ho mai modo di fare un giro e camminare - racconta Pineda - Mi svegliano per il soundcheck, poi aspetto fino alle nove per lo show: è un bellissimo lavoro, ma anche una maledizione".

Riempire le scarpe di qualcun altro non è mai un lavoro facile. Si pensi a Tim Owens, chiamato a sostituire Rob Halford nei Judas Priest e poi sacrificato per il rientro del figliol prodigo. Chissà invece come se la caverà Benoit David, il canadese che cantava in una tribute band degli Yes e che è stato assoldato per sostituire in tour l'etereo ma malandato Jon Anderson proprio nello storico gruppo progressive. Ma nel mondo della musica, le favole riescono ad avere un lieto fine?

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