lunedì 27 ottobre 2008

Le canzoni più brutte della nostra vita - 2


Chi mi conosce da tempo è al corrente dell'incondizionata adorazione per i Kiss che ho sviluppato fin dalla prima adolescenza. Però sono salito a bordo nel loro periodo peggiore: a casa ho ancora gli lp d'epoca di Crazy Nights, Asylum, Animalize. Roba terribilmente anni '80, in cui un gruppo incalzato da una nidiata di musicisti più giovani e più affamati tentava di restare a galla: indurendo il sound (come in Animalize, forse il meno peggio del lotto), buttandosi sul glam alla Motley Crue in Asylum (dove si salvano due canzoni, ad essere buoni) e finendo per annacquare tutto con una bella dose di pop, sintetizzatori, video sbrillucicanti e capelli alti tre metri con Crazy Nights.

Per suggellare questo momento molto pop e molto ridicolo i nostri tirarono fuori nel 1988 un'antologia intitolata "Smashes, trashes and hits": una schifezza già dalla copertina. Ci sarebbe, prima di tutto, da dare la caccia a chi remixò le vecchie canzoni degli anni Settanta per renderle più leggere. Ma si dovrebbe anche perseguire Paul Stanley per i due tremendi inediti con cui "arricchì" quella raccolta. "Let's put the X in sex" è tra le più ignobili canzonette mai sentite in ambito rock e appartiene sicuramente alle "trashes" del titolo: brani tenuti nel cassetto e che là sarebbero dovuti rimanere, chiusi a chiave per l'eternità.

Invece i Kiss decisero di regalarci quest'emozione. Che non si limitava alla musica, forse scritta in un momento di ubriachezza molesta, ma anche a un testo da concorso di poesia oscena (nel senso della qualità). Bastino la prima strofa col primo chorus: I got a letter just the other day / she sent a picture, but she didn't sign her name / she wore high heels and a little black lace / i knew her body, but i couldn't see her face / she didn't leave a number, not an address or a clue / but something in that photograph reminded me of you.
baby, let's put the x in sex / love's like a muscle and you make me wanna flex / baby, let's put the x in sex / keep it undercover, baby let me be your private eye".

Se tanta grazia non fosse bastata, ecco il secondo "tesoro riscoperto": "(You make me) rock hard", una canzone dove l'unica cosa hard stava nel titolo. Quando, all'epoca ebbi una copia di questa cassettina dal mitico amico Gabriele, partivo con l'ascolto direttamente dal terzo brano (la fantastica "Love Gun") e saltavo a piè pari le due schifezze inedite.

Purtroppo i nostri, nell'evidente tentativo di ramazzare qualche spicciolo in un momento di crisi (finirono a fare gli special guest nei festival europei prima degli Iron Maiden), misero insieme anche i video per questi aborti conditi di sinth di terz'ordine. Chiamarono qualche pollastrella, si dimenticarono di assumere una costumista come si deve (gli stretch di Stanley: OMFG!) e, con l'aria evidentemente annoiata, si agitarono un pochino, ma stando attenti a non rovinare la messa in piega dei capelli. Stanley neppure si portò la chitarra da casa e Simmons passò il tempo a fare finta di suonare mentre si guardava intorno con una faccia da "ma quando finiamo ci sarà il catering?". Del secondo video sono da evidenziare la prestazione da odalisca di Stanley, che sculetta come neanche la Valeria Marini dei tempi d'oro, e la capigliatura del bassista sputafuoco: una comoda parrucca in stile Luigi XIV, a prima vista.

Il risultato è questo obbrobrio che è giustamente caduto nell'oblio cinque minuti dopo la sua diffusione. A tutt'oggi non so se mi facciano più schifo le canzoni o i video.



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